Sono solo in muto – Francesco Amoruso
Milleottocentosessanta.
Milleottocentosessanta per dodici anni.
Milleottocentosessanta per dodici anni fanno centocinquantacinque.
Centocinquantacinque l’anno.
Milleottocentosessanta.
Quanto può diventare ossessiva la vita di un uomo? Quanto il ritmico alternarsi di insoddisfazione dovuta al binomio lavoro (poco, precario, quando c’è) e casa (problemi di soldi, problemi familiari, problemi su problemi) può annullare la vita di un uomo? Quanto può essere devastante il trascorrere di un’esistenza lontana dalle proprie frustrate ambizioni, a compilare ossessivamente curriculum vitae in buona parte inventati di sana pianta, romanzati?
A metà tra Il grande fratello di George Orwell e il nichilismo di Camus, il flusso di coscienza dei racconti di Francesco Amoruso travolge il lettore con rassegnata, dolorosa violenza, una riflessione ininterrotta sul cambiamento di una società non meglio precisata, ma che assomiglia pericolosamente a quella odierna e contemporanea, dove i numeri contano più dei nomi dei singoli individui, e la spersonalizzazione dei suoi protagonisti tocca livelli assoluti.
Queste le sensazioni che fluiscono da un racconto come Sono solo in muto, tematiche che in parte sono presenti anche ne Il ciclo della vita (Statale 11, 2012), romanzo che vede protagonista Giorgio, un matrimonio fallito alle spalle, la voglia di ricominciare, le difficoltà sempre in agguato.
Lo stile di Amoruso è ben riconoscibile: personale, nervoso, ironico ma di un’ironia alla Buster Keaton, rassegnato, chiaro, lineare, scorrevole. I personaggi accomunati da un’incapacità di stare al mondo, di rapportarsi col mondo, caratteristiche che ricordano, seppur da lontano, l’inettitudine di Zeno Cosini, ma in una versione decisamente più tendente al sociopatico.
Insomma, nel complesso il giovane scrittore napoletano propone al suo lettore una fredda e lucida analisi del malcostume tutto italiano, pur senza riferimenti a fatti e realtà riconoscibili, racconta con maestria l’incubo della ricerca di un lavoro per i giovani (e diversamente giovani), il compromesso accettato senza proteste, perché è così che si fa, se si vuole arrivare da qualche parte.