Sogno di una notte di mezza estate Cappuccio

Sogno di una notte di mezza estate

Cappuccio, Shakespeare e l'illusione del reale

“La vita è sogno”, ci suggeriva Calderón: proprio come tanti Sigismondi ci destreggiamo tra nitide illusioni e certezze sbiadite del nostro essere nel mondo. E se, parafrasando Cartesio, la vita di ciascuno non fosse altro che un sogno, un’illusione di cui si è ignari al punto da credere che sia la nostra realtà? Cosa allora meglio del teatro, luogo della finzione comunemente accettata, può scoperchiare la verità per rispecchiare sé stessa alla luce dei propri inganni? Questa è la risposta suggerita nel tempo da molti drammaturghi e che Ruggero Cappuccio abbraccia e fa propria nella sua riscrittura di Sogno di una notte di mezza estate, in scena in questi giorni al San Ferdinando di Napoli per la regia di Claudio Di Palma (produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro).

Lello Arena e Isa Danieli sono Oberon e Titania, una canuta coppia di burattinai che, nell’intimità domestica del proprio letto, nella stanza di un vecchio stabile napoletano, mettono in scena l’infinita altalena dei rapporti affettivi, tra simpatiche schermaglie e ritrovate armonie. Sotto una luce perennemente lunare, in un tempo sospeso, la camera è altro dal mondo, un limbo perimetrato da reti da materasso con telai in ferro (scene di Luigi Ferrigno), dietro le quali, come un essenziale siparietto, le “guarattelle” di Ermia, Lisandro, Elena e Demetrio (burattini di Selvaggia Filippini) prendono vita per compiere il destino voluto all’atto della loro creazione.

In un dialetto immediato quanto efficace che si mescola a un inglese maccheronico, sono i protagonisti – detentori di un sapere teatrale legato alla tradizione affabulatoria – a organizzare lo spettacolo su Piramo e Tisbi, da presentare, con l’aiuto dei bizzarri affittuari della banda dell’elfo (Renato DeSimone, Enzo Mirone, Rossella Pugliese, Antonella Romano), in occasione del matrimonio tra il duca Teseo e Ippolita Amazzonis. E se Puck, briccone (Fabrizio Vona), è da tempo assente, circostanza vuole che torni al servizio del suo antico padrone per incantare Titania, affinché ceda a Oberon l’amato Polliciniello, il pupazzo più caro della famiglia di lei.

Sullo sfondo di una Napoli che con l’arrivo del futuro sembra perdere parte del suo spirito – e di cui il burattino conteso è emblema – Cappuccio, sostenuto da un’accurata regia, intreccia sapientemente i fili di illusione e realtà, moltiplicando il gioco della finzione scenica in una rivelatoria mise en abyme. Lo scrittore fa della liminalità tra la certezza dell’essere e il dubbio del non essere un punto d’arrivo, che si traduce in una sferzante dicotomia tra vita e morte. “Sim nui che amm’ sunnat a lor o so lor che hann’ sunnat a nui?” si interroga difatti Titania come a dire “siamo noi meno veri delle storie di cui abbiamo parlato?”.

Ed è il dubbio a superare e smontare a questo punto la sovrastruttura teatrale: la quarta parete può allora cadere, le parrucche e i costumi essere dismessi. Ci specchiamo sulla scena guardando i nostri stessi fantasmi con la tenerezza un po’ nostalgica delle “pazziell’ rotte de i criature”. Continuiamo a combattere come burattini, riempiti di una vita forse solo immaginata e mai stata.

Teatro San Gregorio, Napoli – 17 febbraio 2016

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