Sogno di una notte di mezza sbornia – Luca De Filippo
«Di chi ride sulle mie spalle, me ne strafrocoleo». Così incalza la moglie, il condannato (d)alla fortuna Pasquale Grifone. Ma di ridere, con Sogno di una notte di mezza sbornia, proprio non si può fare a meno, così come non si riesce a schivare il colpo della riflessione amara, tipico di Eduardo. A caricare ulteriormente il doppio registro della commedia intervengono le suggestioni: Luca De Filippo nelle movenze, nelle smorfie e nei versi, pare essere un’involontaria reincarnazione del padre, pur mantenendo una presenza scenica e una forza poetica assolutamente personali.
La storia è quella di un onesto ubriacone del “vascio” napoletano, che ispirato dall’ennesimo mezzolitro di rosso, sogna di ricevere i numeri per una vincita al lotto nientemeno che da Dante Alighieri, il quale però, gli rivela anche che quelle quattro cifre indicano anche il momento esatto in cui spirerà. Frutto di un adattamento, che nel 1936 Eduardo fece di un testo di Athos Setti (La fortuna si diverte), Sogno di una notte di mezza sbornia anticipa alcuni dei temi che il drammaturgo affronterà ampiamente dopo il 1945, nei testi raccolti in La cantata dei giorni dispari, quei giorni in cui tutto va storto: il disfacimento della famiglia, il potere distruttivo del denaro e l’inafferrabile essenza di quel personaggio “corale” costituito da odori, umori e superstizioni che è il capoluogo partenopeo, eletto come microcosmo dell’Italia intera.
Il componimento del repertorio di Eduardo cui si può fare un diretto riferimento è Napoli Milionaria, in cui se la guerra e una generale negatività hanno preso il sopravvento, si assiste allo stesso deterioramento della famiglia, che tra primo e secondo atto, passa da uno stato di povertà a uno di ricchezza, sacrificando l’anima al dio denaro. Qui, però, la matrice scarpettiana, la vena comica, hanno ancora il sopravvento rispetto alla valenza funzionale al racconto, cui sarà subordinata nei testi successivi di De Filippo padre.
Luca De Filippo, coadiuvato dalla sua compagnia (in cui spicca Carolina Rosi, nel ruolo che fu di Pupella Maggio), traspone fedelmente il testo paterno, riducendolo sensibilmente e caricandolo di poche incursioni contemporanee, come il passaggio di valuta della vincita al lotto, dai quaranta milioni originali, ai seicento, più “spendibili” nella contemporaneità. Nella parte finale della commedia, quando va in scena l’espediente metateatrale della “regia” della morte (proprio come avviene in Napoli Milionaria) la sovrapposizione tra padre e figlio è completa: mentre Pasquale Grifone allestisce la sua dipartita, Luca De Filippo recita carnalmente quelle paralisi, quel senso di morte comica incombente, che Eduardo tante volte aveva “agito” sulla scena (su tutte, Natale in casa Cupiello).
Come vuole la tradizione scarpettiana, la scenografia è bidimensionale: una porta e una finestra bastano a rendere la dialettica spaziale interno/esterno-caldo/freddo e due fondali dipinti di guttusiana memoria ben identificano i due volti di Napoli, quella povera dei bassifondi e quella ricca e sorniona, che si affaccia sul Vesuvio. Ironia poetica, risate venate di amarezza, che vengono restituite perfettamente dalle musiche di un inconfondibile Nicola Piovani, che accompagna con leggerezza lo svolgersi del racconto fino all’epilogo farsesco: una tavola imbandita, apparecchiata per festeggiare lo scampato pericolo, che si ripresenta per colpa di un orologio malfunzionante.
La risata vince comunque e Eduardo e Luca De Filippo qui la propongono come terapia contro l’unica malattia davvero incurabile, perché in fondo “si muore solo di morte” e tutto il resto si può sempre aggiustare.