Recitare, un mestiere ricco nel bene e nel male, pieno di contraddizioni difficilmente risolvibili: da una parte pratica liberatoria, che può permettere di trovare una maggiore libertà, sia espressiva che umana; dall’altra, invece, un lavoro che rischia di soffocare, di far emergere parti di sé che si preferirebbe tenere nascoste, specialmente quando ciò che si finge di essere in un film o in una pièce confina con gli aspetti più delicati della vita reale. Perciò, l’interprete più problematico e più sensibile che si lascia prendere troppo dal proprio vortice di finzione senza disporre di vere difese, quando crede di poter fuggire dentro altri personaggi in maniera catartica, in realtà, non fa altro che riconfermare il vero sé stesso, la propria difficoltosa esistenza.
Tutti aspetti, questi, ben presenti in Sils Maria, ultimo film di Olivier Assayas con Juliette Binoche e Kristen Stewart. Maria Enders (Juliette Binoche) è un’attrice di successo, non più giovane, non bellissima, ma dal carisma che le conferisce una sensualità, un piglio e una presenza di rara intensità. La donna trascorre buona parte del suo tempo con la sua assistente e amica Valentine (Kristen Stewart), fonte di valido aiuto anche nell’ambito privato. Un giorno a Maria viene offerto di interpretare nuovamente la pièce teatrale drammatica che le aveva regalato la fama ben venti anni prima. A quel tempo, l’artista si era calata nei panni di Sigrid, affascinante fanciulla che porta la matura Helena ad uccidersi. Ora, invece, tocca a lei interpretare Helena, e a trovarsi accanto una Sigrid impersonata da Jo-Ann (Chloè Moretz), giovane e scandalosa attrice che potrebbe rubarle l’attenzione e farla sentire fuori luogo.
Juliette Binoche si inserisce nella parte con una passione che traspare senza tregua, ma che non esclude una precisione cristallina nell’affrontare l’emotività più feroce. L’attrice francese si cala con assoluta credibilità nell’intimo di quest’anima femminile, dalla complessità generosa e ostile, che, pur spigolosa, ha molto da offrire al pubblico e al prossimo, che sente fin troppo il battito più profondo, più intimo e pesante del proprio interpretare. Ad ogni modo, un’ottima interpretazione non significa che la parte ideata, scritta e scolpita dal regista sia altrettanto notevole. Tutt’altro, in questo caso. Sils Maria è infatti un mosaico di banalità, di discorsi più che masticati sul mondo grandioso ma avvilente del cinema, sulle rivalità, sulla spietatezza infantile di certi giornalisti e di alcuni meccanismi della televisione.
Assayas sviscera anche una gracile quanto appassionata critica alla Hollywood più alienante e vuota, quella dei blockbuster, contrapponendole in maniera vecchia e scontata l’indiscutibile forza espressiva di un’attrice che cerca di non scendere mai a compromessi. Il tutto, per di più, è tenuto insieme dal collante di una regia sotto zero che, nelle scene migliori, assomiglia al massimo a un Bergman a buon mercato. Lo stesso personaggio di Maria è uno sciame di luoghi comuni su questo mestiere: il sottile dispiacere del passare degli anni; il conseguente, inevitabile confronto con le attrici più giovani e pimpanti; l’immagine di una diva sicura di sé ma, alla fine, fragile e incerta, alla continua ricerca di conferme sul proprio talento e fascino; l’insopportabilità di interpretare una parte che assomiglia troppo alla realtà, di una recitazione che diventa una schiacciante e avvilente autoanalisi. Argomenti obsoleti offerti in modo altrettanto obsoleto.
A voler essere estremi, si potrebbe dire che con Sils Maria Assayas riesce a rendere così banalmente insopportabili tutti personaggi da far passare la voglia di avere a che fare anche solo come spettatori col tipico mondo del cinema, e, soprattutto, delle attrici. Tanto che, forse, dopo queste due ore di visione, si sente la necessità di vedere un film completamente muto e astratto, dove non ci siano corpi di interpreti a stressare con i loro beati tormenti senza un minimo di stile.