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Silence

Scorsese firma il suo film più contemplativo ed esistenziale

Ci sono artisti che hanno contribuito a cambiare per sempre il corso della storia della musica. Tra questi senza dubbio figura Elvis Aaron Presley, cantante, chitarrista e attore del Mississippi che ha influenzato certamente più di una carriera musicale. Ma non solo. Tra i personaggi noti che hanno subito una discreta influenza da quello che diventerà il Re del Rock’n’Roll, c’è anche un certo Martin Scorsese, figlio di catanesi emigrati a New York e residente a Elizabeth Street, Little Italy.

In un quartiere costellato di negozi di prodotti italiani, chiese cattoliche e malavita, il giovane Scorsese – esile e cagionevole – rappresenta il tipico outsider in un quartiere di outsiders. Nel contesto sopracitato, Martin passa da un istituto cattolico all’altro, prendendo in seria considerazione l’ipotesi del sacerdozio. Ma appena prima di compiere quattordici anni – siamo nel 1956 – l’anca ondeggiante e lo stile anticonvenzionale di Elvis Presley irrompono sugli schermi televisivi americani. L’effetto è travolgente: si cambia subito rotta. Come avrà modo di dichiarare qualche anno dopo, il rock’n’roll l’ha allontanato dalla sua vocazione sacerdotale e l’influenza del genere musicale sarà palese in tutta la sua carriera. Così come avranno una notevole importanza (lo vedremo meglio) la fede e la figura dell’outsider, punti cardine della sua intera filmografia.

Ora. Al di là dell’aneddoto, forse un bambino che a soli quattro anni vede Duello al sole (King Vidor, 1946) e che nel corso degli anni diventa una vera e propria enciclopedia umana della storia del cinema, sarebbe probabilmente approdato alla Settima Arte abbandonando comunque il sacerdozio. Ma se ciò non fosse accaduto, cosa avremmo perso? Sicuramente un gran numero di capolavori, certo, ma anche un regista divenuto tra i più influenti e potenti nell’attuale panorama cinematografico mondiale. Perché, senza girarci troppo intorno, quanti registi hollywoodiani possono permettersi, oggi, di girare un film “impegnativo” come Silence? Specie se, quello che rappresenta il suo film più introspettivo e personale, arriva dopo successi commerciali del calibro di The Wolf of Wall Street, Shutter Island e The Departed?

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La regia di Scorsese, la presenza nel cast di attori “blasonati” come Andrew Garfield, Adam Driver e Liam Neeson, e le scenografie di Dante Ferretti avrebbero potuto attenuare un flop al botteghino più che ipotizzabile e che pochissimi possono affrontare indenni. Per ora il box office recita che il film ha incassato meno di un decimo del budget utilizzato (40.000.000 $), e non crediamo che le cifre saliranno per una pellicola divenuta una vera e propria ossessione per il regista newyorkese, visto che cerca di girarla da più di vent’anni.

Tratto dall’omonimo romanzo di Shusako Endo, l’incipit del film ricorda vagamente quello di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979). Verso la metà del XVII secolo, infatti, due giovani missionari portoghesi – padre Sebastião Rodriguez (Garfield) e padre Francisco Garupe (Driver) – partono per il Giappone alla ricerca di padre Ferreira (Neeson). Il loro mentore, di cui non si hanno più tracce, è accusato di aver abiurato la propria fede per convertirsi al buddismo. Il viaggio, però, non si rivelerà molto semplice perché i missionari e i cristiani sono considerati una minaccia in terra nipponica, e quindi destinati alla clandestinità al fine di sfuggire alle torture del Grande Inquisitore.

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Nella filmografia di Scorsese, come già anticipato, l’outsider ha un ruolo di un certo rilievo. In costante lotta contro il microcosmo di riferimento, questo personaggio è spesso chiamato a sacrificare la sua stessa vita in nome di un ideale. Lo era Charlie Cappa (Harvey Keitel, Mean Streets, 1973) nei confronti di Little Italy; o Travis Bickle (Robert De Niro, Taxi Driver, 1976), in rapporto con i bassifondi newyorkesi; o ancora, per fare un esempio più recente, Billy Costigan (Leonardo Di Caprio, The Departed, 2006), in relazione all’FBI. Qui il testimone passa a padre Sebastião Rodriguez, missionario clandestino in lotta solitaria contro lo shogunato Tokugawa. Ma il padre rappresenta qualcosa di più, e ben presto capiremo che è solo un rappresentante di tutto il cristianesimo, filmato nell’insolita veste di minoranza e per di più vittima di quel proselitismo che è stato il suo marchio di fabbrica (a anche arma) nel corso dei secoli.

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Di qui appare chiaro come anche il discorso sulla fede – l’altro tema ricorrente – diventi leggermente più complicato. Nell’universo scorsesiano i protagonisti sono in costante bilico tra peccato e redenzione. Qui la dicotomia è presente nel personaggio di Kichijiro (Yōsuke Kubozuka), alter ego e ombra del protagonista, nonché peccatore alla cronica ricerca della redenzione. Ma Kichijiro è solo uno dei personaggi secondari, motivo per cui la tematica della fede prende una consistenza di ben altro rilievo. Ciò che Scorsese analizza, infatti, è l’intangibilità e il silenzio assordante della fede e, quindi, il perturbante tormento che i fedeli devono sostenere per far fronte al mutismo del proprio Dio. Una profonda indagine sul mistero della religiosità che, per affinità, rende Silence il tassello mancante di una trilogia composta da L’ultima tentazione di Cristo (1988) e Kundun (1997).

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Probabilmente è il film più contemplativo ed esistenziale dell’intera carriera di Scorsese, e il regista sceglie di filmarlo abbandonando quasi totalmente i consueti movimenti della macchina da presa per concentrarsi sull’accurata scelta dell’inquadratura. In questo modo la sua mano appare invisibile, quasi volesse distaccarsi ed esentarsi da ogni giudizio morale per donare al suo pubblico spazio per una personale meditazione.

Sicuramente la pellicola ha fatto e farà storcere il naso a parecchi fan del cineasta newyorkese, specie quelli più affezionati ai lavori dell’ultimo ventennio. La complessità, la tematica e l’eccessiva lunghezza forse non rendono il film troppo appetibile. Ma la qualità è indubbia, e, sia pur uscendo dagli abituali canoni, Scorsese rimane una delle poche certezze tra i registi della sua generazione.

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