Fukuoka, Giappone contemporaneo. Ninagawa è un uomo che conta nella politica giapponese e che vanta amicizie molto potenti. Sua nipote viene uccisa. Il sospetto è Kunihide Kiyomaru. Il potente multi-miliardario Ninagawa mette un prezzo irresistibile sulla testa di un uomo che crede di essere l’assassino di sua nipote. Per questo è diventato un bersaglio per milioni di persone, Kiyomaru si gira in alla stazione di polizia di Fukuoka. Quattro ufficiali vengono spediti per portarlo a Tokyo, rischiando la propria vita, ma ora un numero di assassini in agguato durante il viaggio 1,200 km. Il viaggio diventa un inseguimento infernale, con potenziali assassini ad ogni turno. Riuscirà la giustizia ufficiale a trionfare?
Anche nel suo ultimo Shield of Straw Takashi Miike si scontra da un parte con la contemporaneità di un Giappone sempre più in velocità folle e dall’altra con le remore morali di un passato ancora vivo. Come sempre strapazza il genere, con una facilità disarmante, forse li attraversa tutti per raccontare una storia di per sé non molto originale. Fluttua nel suo cinema fatto di vuoti che in quello spazio in continuo movimento cerca la propria naturale rappresentazione. Il linguaggio anche questa volta deve rispettare l’esperienza, ne deve essere l’espressione naturale (se non morale) dell’odissea rappresentata dai protagonisti.
Il film così diventa interessante, non spingendo l’acceleratore sulla natura psicologica degli eventi, ma considerandone l’azione, la potenza della presa diretta, un montaggio forsennato ed una simultaneità di visione L’etica rimane quella del dovere, del portare a termine la prossima missione anche al cospetto della vita; ma da quegli assiomi “samurai” parte una modernissima riflessione sulla multimedialità sempre più vorace e su una informazione che è oramai incontrollabile. La caccia all’uomo è una specie di lavoro sul vuoto, anche quello tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Forse lo spazio più impossibile di tutti, ancora più impossibile portarlo al cinema. A volte però, almeno in parte e con strumenti che giocano sulla superficie, ci si riesce.