Shadow
Il “nuovo” film di Zhang Yimou, presentato fuori Concorso a Venezia 75 come un capolavoro ma subitaneamente scomparso dai radar della distribuzione nostrana.
Quella di Zhang Yimou è una filmografia incredibilmente discontinua che ormai da anni sembra viaggiare su due binari paralleli, il grande cinema d’impegno sociale e l’intrattenimento di grande impatto visivo, sempre in bilico tra talento e ideologia. Ex operaio, rifugiatosi all’accademia cinematografica di Pechino solo per sfuggire al lavoro in fabbrica, col suo primo lungometraggio da regista, Sorgo rosso (1988), Zhang Yimou si aggiudica subito un Orso d’Oro a Berlino. È il 1987, il regista al debutto porta sul grande schermo Gong Li e da quel momento i due diventano gli ambasciatori per eccellenza del cinema cinese nel mondo. Segue un Leone d’Argento per Lanterne Rosse (1991), un Leone d’Oro per La storia di Qiu Ju (1992) e un altro ancora per Non uno di meno (1999). Consacrato da questi successi come il più importate e influente regista cinese degli anni ’90, Zhang Yimou dal 2000 si è dato a imponenti produzioni wuxia (film d’ambientazione storica con eroi marziali della tradizione cinese) come Hero (2002) e La Foresta dei pugnali volanti (2004). Inizialmente snobbate dalla distribuzione occidentale, grazie all’interessamento di Tarantino e ai 4 Oscar vinti da La tigre e il dragone di Ange Lee, le pellicole vengono sdoganate anche negli Stati Uniti e in Europa trovando il favore del botteghino. L’amore dell’Occidente per i wuxia però finisce presto: Seven Swords di Tsui Hark apre Venezia 62 ma è un flop, e il capitolo sembra chiuso lì.
In patria Zhang Yimou continua a dividersi tra produzioni da cineasta impegnato e blockbuster di pura messa in scena in cui continua a esplorare le possibilità estetiche dei combattimenti d’arti marziali in costume. Shadow è una storia di intrighi e passioni nell’antica Cina dei Tre Regni dove re e potenti si servono di sosia accuratamente addestrati (uomini ombra) per mettersi al riparo dagli attacchi nemici. Il regista ripropone le battaglie coreografiche oltre i limiti della fisica che hanno eccitato il pubblico di Hero, i cromatismi ricercati, i primissimi piani e lo slow motion sulle gocce d’acqua di una Cina grigia, umida e piovosissima che sembra sciogliersi su sé stessa, dà insomma sfogo al suo estro estetico a cavallo tra soluzioni raffinatissime e trovate sul filo del ridicolo (una battaglia con “letali” quanto improbabili ombrelli metallici).
Con Shadow il cineasta allestisce un’opera di grande impatto visivo, ricreando un mondo onirico, antico e mitologico, tutto declinato sui toni dell’inchiostro di china: neri, grigi, verdi e azzurri sbiaditi e trasparenti. Solo i volti e le mani dei protagonisti hanno il colore caldo e rosato dell’incarnato. Alla fotografia si conferma Zhao Xiaoding, collaboratore di lunga data, i due danno vita a paesaggi evanescenti color perla che sembrano scappati delle opere d’arte di Qi Baishi, una Cina complementare a quella completamente dorata, iridescente e abbagliante pensata per La città proibita (2006).
La messa in scena è sontuosa, ricercata e a tratti ingegnosa (maestranze e digitale vanno a braccetto in maniera impeccabile) e dopo un disastro come The Great Wall – produzione internazionale dove Matt Damon e Willem Defoe combattono draghi all’ombra della Grande muraglia (WTF) – una pellicola così esteticamente leziosa (ma spericolata al tempo stesso), sebbene senza grandi emozioni narrative, risulta quasi rassicurante; un cinema da confort zone.