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Sette Opere di Misericordia e mezzo – Salvatore Marci

In Sette opere di misericordia e mezzo la vita prende il largo, e i luoghi, come i vicoli napoletani del “quasi” omonimo dipinto caravaggesco (guarda qui), diventano metafora di una condizione. Un’oscura ambientazione metropolitana che attraversa l’intera penisola, accompagnandoci in un viaggio di ombre e ossessioni narrate tutte dalla voce di Salvatore Marci.
Gli accenti ci suggeriscono l’universalità di personaggi che abitano i margini, ovunque essi siano: nelle periferie, nelle carceri, o semplicemente nell’animo di ognuno di noi, come ricorda lo sguardo fermo sul pubblico che fraziona le riflessioni di un monologo teso e commovente. Marci: autore, regista e interprete di questo “accadimento teatrale”, si lascia parlare da diverse anime, tutte bisognose di misericordia e per questo in grado di compiere atti di misericordia a loro volta.

Venuti fuori dal dipinto di Caravaggio, un angelo – Maristella Tanzi – e San Martino di Tours – Daniele Lasorsa – diventano dèmoni accusatori e vittime del paesaggio umano che abita le assi del palcoscenico, solitario ma allo stesso tempo affollatissimo. Chi è il protagonista di questa messa in scena? Un uomo accusato di omicidio? Qualcuno a cui piacciono le “cose immobili”? Chi beve sambuca “per stanchezza”? Oppure una donna vittima di violenza? Una prostituta vestita di bianco? Nessuno di loro, o tutti in uno? Una schizofrenia dell’animo illuminata da una scenografia vuota (disegno luci di Michelangelo Campanale): sfaccettature di un prisma, prospettive incrociate su uno stesso corpo.

Tutti siamo chiamati a un atto di misericordia: il regista ci invita a chiudere e ad aprire gli occhi come stacchi di montaggio sulla sua messa in scena. Così la giustapposizione, quasi cinematografica, richiama costantemente l’attenzione su quel paesaggio umano che abbiamo difronte: frammentato, interrotto, come Shine a Light dei Rolling Stones bloccata all’incipit dal bisbiglio convulso di We don’t Die di Tricky.

Le luci si spengono e, come accade sul palco, lo spettatore cerca qualcosa di più: da una bottiglia o da chi gli sta intorno; torna, allora, alla mente che la parola “misericordia”, come suggeriva l’angelo poco prima, è un pugnale, lo stesso che nel buio finale affonda la lama sullo spettatore costretto a ricomporre una realtà in pezzi ma allo stesso tempo ricca di echi artistici e umani che vanno da Artaud a Becket passando per quei barboni che ogni giorno fingiamo di non vedere per strada.

Teatro Comunale, Ruvo di Puglia – 14 novembre 2014

In apertura: Foto di scena ©Gemma Rossi

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