Seminare tra le rovine
L’abitazione consapevole del IX Festival Periferico
L’arte deve intervenire? nella società, nella politica, nella cultura…? No, non se possa, ma se debba.
È innegabile, anno dopo anno si va attendendo sempre di più un cambiamento—ma la domanda è sempre la stessa: chi sarà a portarlo? Nell’attesa tutti quanti tirano a campare. E la diffidenza cresce. E la speranza scema.
Sarà domani? dopodomani? alle prossime elezioni? Non si sa. Perché non è che intanto stia arrivando un granché. Meteore, fuochi di paglia, qualcuno che ancora si masturba con l’idea nostalgica della rivoluzione, pochi che si prendano la briga di – giusto per responsabilizzarsi un po’ – rinunciare in primis a questa bambagia di comfort in cui siamo immersi (causa principe e dell’inerzia e del collasso). Sia mai. Né si può dire che stiamo imparando molto da chi attraversa orrori su orrori per sbarcare sulle coste della nostra livida indifferenza.
E, allora, visto che il nostro bello, moderno, avanzatissimo Occidente si impaluda nella propria stessa crapuloneria, possiamo cominciare, nel frattempo, a imparare dalle rovine. Ché di rovine ne abbiamo prodotte—e parecchie.
È il caso dei modenesi Amigdala e del loro Festival Periferico. Dopo nove anni di nomadismo strutturale (in abitazione artistica dei luoghi abbandonati della città), per la prima volta il festival si fa stanziale. Accade a Modena Ovest, tra la linea ferroviaria (ora dismessa) che un tempo collegava Modena a Milano e l’ex-autodromo convertito in Parco (intitolato a Enzo Ferrari): siamo nel Villaggio Artigiano, proprio là dove lo scorso anno il collettivo aveva illuminato per tre giorni la decadenza di un quartiere ideato negli anni ‘50 dal Sindaco “rosso” Corasori e dell’urbanista Pucci per far fronte alla forte disoccupazione degli operai specializzati del settore metallurgico emiliano (Maserati, Ferrari, Stanguellini e non solo), e poi, decennio dopo decennio, tramontato.
Delle “case-botteghe” di allora, oggi, poche sono ancora operative: giusto uno o due operai, in là con gli anni, che non potranno avere discendenza. La ruggine sopravanza, i cartelli vendesi si sbiadiscono, perfino la chiesa di quartiere è diventata un palazzo condominiale. Qualche giovane ereditario prova a lanciare nuove attività commerciali (enogastronomiche, artistiche, culturali in genere), ma a oggi sono pochi i volti nei paraggi: soprattutto immigrati subsahariani e le loro giovanissime famiglie.
Che fare? Morire una volta per tutte o ripensarsi dalle macerie?
Amigdala ha optato per la seconda. E ha deciso di insediarsi. Lo ha fatto all’#OvestLab (ex-capannone industriale di cui ha vinto il bando triennale per la gestione insieme a l’Archivio Cesare Leonardi, lungimirante architetto e designer modenese, e in collaborazione con il Consorzio Attività Produttive).
E questo è un tratto che salta subito all’occhio. Pur mantenendo lo stesso spirito e abitando lo stesso quartiere, quest’anno Periferico è cambiato molto. Con strenua diligenza (forse anche troppo scrupolosa), Federica Rocchi, Gabriele Dalla Barba, Meike Clarelli e Sara Garagnani hanno evitato di replicare le stesse formule della scorsa edizione.
Da un lato si è arricchita la sezione prettamente spettacolare puntando su nomi più noti della scena contemporanea come Abbondanza/Bertoni, Muta Imago, Claudia Catarzi, nonché le installazioni performative di Filippo Andreatta/OHT. Dall’altra si è arricchita l’interazione artistica con il luogo: non più attraversamento artistico tout court bensì abitazione ri-creativa, contenitore di echi, tempo di crisi attiva, piattaforma di rilanci.
In questo senso va, sicuramente, colta la performance itinerante di Isabella Bordoni. Adiacenze moltiplica le voci degli abitanti-operai del Villaggio disseminando testimonianze per le vecchie fucine: sono tracce (audio) senza volti che emergono tra gli stampi di sabbia, sotto una vetrata pericolante, nella fuliggine di una fonderia. Cosa ne è stato di questa storia? di queste storie? Quando infine si giungerà sulla massicciata senza binari, la voce della poetessa-performer riminese sembrerà rifrangersi tra le pietre: in cerca di una nuova semina tra le rovine di un tempo che fu.
È nel noi che varco la soglia.
È nell’io che rimango ferma.
L’artista, dunque, la sua azione, coltiva l’inerzia del presente.
Lo spettatore, l’attraversante, risveglia la propria capacità di visione.
Parimenti la nuova installazione di Amigdala. Un luogo fluido, carico di sciabordii dimenticati e sguardi irrisolti. La disobbedienza dell’acqua, infatti, immerge la dimensione sfuggente del sogno nell’esposizione all’ignoto: dopo una video-audio installazione (con la presenza di Silvia Pasello), si lascia il buio onirico della “caverna” onirica per trovare al piano superiore tanti piccoli fogli di carta immersi in altrettante bottiglie. Custodi fragili ma trasparenti, tutti uguali nell’apparenza eppure forieri di immaginazioni inconfessate, di desiderî nacosti, al mondo, agli altri, perfino alla propia coscienza. E chi attraversa l’installazione può concedersi quell’atto non dovuto che è il riscoprirli: avvicinarsi a un imbuto da cui pendono due piccoli auricolari e calarsi nel sogno—altrui. E riscoprirlo «proprio» («risveglio di quel substrato addormentato del Villaggio Artigiano», lo definisce giustamente Serrazzanetti su Stratagemmi).
Non sono le gocce che si dissolvono nel mare, ma è il mare che si dissolve nelle piccole gocce.
Periferico è ancora incontri, esplorazioni, visitazioni, concerti, ed è proprio questa azione sensibile di presenza che fa veramente la differenza. Non a caso Enrico Gabrielli – musicista internazionale, scrittore, fautore insieme a S. Giusti del progetto UPm – sottolinea: «L’arroganza è un sintomo che quello che fai prima o poi finirà.» Parole che risuonano di involontaria ironia tragica nella decadenza del paesaggio archeologico-industriale del Villaggio Artigiano.
Quella del Singolare e Plurale, in effetti, è la grande questione del presente. E a nostro avviso è soprattutto in questa direzione che il festival sprigiona il suo più alto potenziale. Gli spettacoli, seppur concettualmente vicini alle questioni affrontate nonché – a volte – rivisitati alla luce del luogo non-teatrale in cui venivano allestiti, rimangono l’elemento più convenzionale; mentre, al contrario, ci sembra proprio che sia la rarefazione sensibile della presenza artistica il tratto dominante del festival: quando le azioni – installative o teatrali che siano – cioè si fanno «drammaturgia vivente della relazione tra ambiente e territorio» (come nota a ragione Brighenti su PAC).
In questo senso, nella sua preziosa semplicità, una della azioni seminvisibili più significative ci è parsa lo spassoso itinerario museale immaginato dal collettivo sloveno LJUD. Un nastro rosso, a terra, che serpenteggia, curva, zigzaga da un bordo all’altro della strada per spingere i visitatori a soffermarsi su particolari qualunque (un cartello, un filo spinato, una macchia sul muro, ecc.) grazie a divertenti false didascalie che con spiccata ironia mostrano il lato “artistico/poetico” che si cela (potenzialmente) anche nel più insignificante scarto urbano.
Se lo scorso anno sopravanzava la spossatezza di un presente esaurito («È già troppo tardi»), stavolta si scorgono le prime tracce di una semina: «Fammi stare nel tutto che avanza» (sempre Isabella Bordoni).
L’arte allora non deve agire per cambiare, ma con il suo sensibile pindarismo dal e nel reale può farsi fonte collettiva di rinnovate visioni, fonte dalla quale chiunque, se saprà notarlo, potrà attingere.
Ascolto consigliato
Villaggio Artigiano, Modena – 26, 27 e 28 maggio 2017