Sei personaggi in cerca d’autore – Vico Quarto Mazzini
La prima volta che i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello calcarono le scene fu al Teatro Valle di Roma, nel maggio del 1921. La serata fu, dicono le cronache, complicata. Oggi, quasi un secolo dopo, poche vie più in là verso il Tevere, il primo episodio del «Teatro nel teatro» pirandelliano è uno dei classici immortali che hanno ispirato, stuzzicato, generato, le nuove drammaturgie protagoniste della stagione del Teatro dell’Orologio. Pirandello è ben più che un punto di partenza per l’allestimento della compagnia Vico Quarto Mazzini, che si avvale della regia di Gabriele Paolocà che, in solitario nell’Amleto Fx andato in scena a novembre sempre all’Orologio, già quest’anno aveva messo le mani nella magmatica contemporaneità dei classici.
Se Amleto era quasi (pre)testo, i Sei personaggi impongono maglie più strette all’attualizzazione e all’adattamento. C’è l’Autore, o meglio il direttore/regista, e ci sono i Personaggi, che come da copione irrompono durante le prove di Il giuoco delle parti. Manca la Compagnia, il macchinista che inchioda è nello stereo, l’Autore – mala tempora currunt – sbarca il lunario come uomo-panino per un fast food, dei due figli giovani rimangono solo trecce e camicia. Resta, invece, il melodramma incarnato in coloro che dovrebbero essere falsi, convenzionali, nient’altro che puri nomi, funzioni, idee e che, vivissima scoperta pirandelliana, sono più veri del vero, per lo meno più veri di noi. Nella persistenza di quel pensiero affacciato sul vuoto, sul nulla, si trova il cuore dello spettacolo.
Il melodramma, per forza di cose, è invecchiato. La lacrimosa vicenda del Padre, della Madre, del Figlio e della Figliastra, con le sue tensioni edipiche e i traumi catto-borghesi, colpisce quel tanto che basta a convincere il disperato teatrante a ritrovare un po’ di entusiasmo per la messa in scena. La necessità del vivere la propria storia, la fortuna di poter avere una personalità e una vicenda chiara e distinta, non persa nella sfumatura e nell’indistinto, come noi ancora e sempre in bilico tra «uno» e «nessuno»: questa è la tensione che attraversa i decenni, e che VicoQuarto Mazzini isola e amplifica sulla scena. L’uso degli effetti registici, scopertissimi e convenzionali, dalla macchina del fumo al sipario da marionetta, fino a un disegno luci capace di scolpire i volti e cancellare i corpi, rendere i personaggi fantasmatici, sospesi nel vuoto, altro non è che esaltazione del lato più filosofico – la stessa teoria che esasperò gli spettatori quella sera al Valle – del testo.
Risolvere questa duplicità di Pirandello, il difficile accordo tra esigenza narrativa e profondità speculativa, tutto a favore della seconda è probabilmente il modo giusto, qui e ora, di liberare la potenza di un pensiero che parla al pubblico meglio oggi che novant’anni fa. Dimentichiamo i melodrammi, lusso di chi sa di cosa dovrà soffrire, e teniamoci le vertigini per il pensiero affacciato sul vuoto e sul nulla, proseguiamo la personale lotta per essere «uno» e coltiviamo il sospetto che sia meglio «nessuno» che «centomila». Pirandello capirà.
Sala Orfeo, Teatro dell’Orologio, Roma – 18 febbraio 2015
In apertura: Foto di scena ©Manuela Giusto