Territori da coltivare e identità in crescita
In Sicilia l'VIII edizione di Scenica Festival
Che effetto fa riscoprire che il tempo non è quello che scorre tra una notifica e l’altra, che il nostro habitat non coincide con uno schermo, che c’è stato un tempo in cui l’essere umano si distingueva dai primati per il pollice opponibile e non per l’indice che clicca?
Ci si potrebbe sentire in astinenza, come storditi, nell’assistere a Scenica 2016 a Vittoria, nel Ragusano. Ma non per via dell’aereo o dello scirocco che subito diventa maestrale, piuttosto per un ritrovato senso della misura, calibrato di volta in volta sulla realtà con cui il Festival va confrontandosi.
È questo che permette a Scenica – giunto all’ottava edizione sotto la direzione artistica di Andrea Burrafato e l’organizzazione dell’Associazione Santa Briganti – di agire come una sorta di laboratorio relazionale in cammino verso quel territorio per cui è nato e che necessita di una costante messa a fuoco.
Del resto la stessa locandina del Festival di fronte alla smisuratezza di un dinosauro contrappone un’imbizzarrita tre ruote ape motore, evoluzione hi-tech del mulo da soma e status symbol di chi fatica. Le sproporzioni sono evidenti ma è l’ironia kitsch dell’immagine a rimettere in scala limiti invalicabili o presunti tali.
Viene in mente una celebre battuta di Groucho Marx: Siamo circondati dal nemico. Siamo tre uomini e una donna. Mandateci dei rinforzi. O, per lo meno, altre due donne. Cerca di essere graffiante Scenica per vedere cosa c’è sotto quel territorio che rischia di diventare un guscio vuoto buono a riempire solo la bocca. E lo fa attraverso il circo, la musica, la danza, il teatro, la giornata a Gerico nel Centro di Prima Accoglienza (altrimenti detto CAS, Centro di Assistenza Straordinaria, in cui i migranti sono accolti da una rete di operatori e associazioni nei sei/otto mesi che in media passano qui in attesa che la burocrazia si compia), o ancora le performance di video arte e l’esito di laboratori annuali teatrali cui assistiamo nei tre dei quattro giorni in cui seguiamo il Festival.
Prima giornata
A tre ombre, una performance di teatro danza di e con F. Aloisio, F. Marullo e G. Vitrano; Cuerdo, uno spettacolo circense non fuori, all’esterno, ma dentro un teatro – per di più quello Comunale – di K. Stets e le luci di I. Tomasevic; e, infine, il liuto, di Jozef Van Wissem. Questi i protagonisti della nostra prima giornata.
Sebbene tutti affondino nel minimalismo, è Cuerdo ad avergli dato compiutezza, nella forma e nel contenuto, e ad averla fatta riverberare lungo le corde dell’immaginazione su cui tutti e tre gli spettacoli battono non sempre riuscendovi – e non solo in senso metaforico.
Se da un lato i venti minuti tesi lungo il filo dell’onirico di A tre ombre sembrano vacillare nella mancanza di un trait d’union tra intenzioni e sviluppo poetico, dall’altro la performance musicale dell’olandese Jozef Van Wissem (premio anche a Cannes come miglior colonna sonora del film Only Lovers Left Alive di Jim Jarmush) pare rimanere intrappolata sul palco, in un virtuosismo solitario innescato da sapienti e inattesi innesti tra musica barocca e rinascimentale, decostruzionismo e classicismo, che prima lo caratterizzano ma poi rischiano di farla andare in cortocircuito.
Saranno invece i brevi e semplici quadri che compongono Cuerdo, contrappuntato da una grammatica non verbale, ironica e assurda, a fare breccia nel teatro, nella danza, nella musica, e perfino nella cosiddetta quarta parete, a far realizzare la leva con cui scardinarci prima, per sollevarci poi.
Karl Stets entra in platea curvo quasi fosse una tartaruga sotto il peso della propria casa. Del resto la sua valigia questo è: un contenitore di attrezzi (tre corde, qualche trappola per topi, un walkman, un megafono usato per amplificarne il suono, e poco altro) che insieme al corpo dell’artista, mezzo fauno e mezzo marziano, tenderanno la corda tra azzardo e gioco, rischio e pericolo, illusione e realtà. La disciplina del mestiere circense sembra pesare meno di uno spillo su questa corda tesa, ora fluido serpente irriverente ora rigida stampella per una vita azzoppata.
Seconda giornata
Il secondo giorno si apre con Fa’afafine Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, (Premio Scenario Infanzia 2014, di G. Scarpinato con M. Degirolamo, qui la nostra recensione) che gioca con i generi e con il genere, demolendoli e ricevendo anche qui, al Teatro Comunale di Vittoria, una riconoscenza ampia e partecipata del pubblico. Ma anche Bruna è la notte, (di e con A. Riccio e A. Becucci, due toscanacci istrionici come la loro lingua, nonché la loro musica), sgretola i nostri castelli di carte e lo fa in modo duro: colpisce, non chiede scusa e continua a giocare solo a modo suo.
Nel chiostro di Palazzo Iacono, tutto è allestito con tavoli, sedie e camerieri, a mo’ di quelle serate in cui ascoltare un po’ di musica dal vivo offre una parentesi di riposo per spiriti inquieti: i nostri, chi più chi meno; il suo, di Bruna, su tutti.
Sembra di stare in un cabaret di tanti anni fa, in un passato innocuo come quello nei discorsi da bar, del prima si stava meglio anche se si stava peggio ma basta che Bruna (Alessandro Riccio) entri e canti che la musica cambia.
Sarà accompagnata alla tastiera dal solo amico che le è rimasto (Alberto Becucci). Insieme sembreranno quasi cane e gatto: lei è sicuramente il gatto, quello dalle nove vite, che non muore mai e che continua a soffiare su ferite mai risarcite. Lui, il fedele cane, sempre lì, che forse morirebbe pure volentieri, sì, però solo dopo lei.
Appesantita da un trucco e parrucco da balera su quel suo corpo così sbavato dagli anni difficili della bella vita, sembra ormai una bellezza di poco valore, ma Bruna è altro, è le canzoni che canta: non quelle dei mitici anni d’oro, quelle che in Capannina, a Viareggio, si mettono ancora per scaldare l’atmosfera, da una Rotonda sul mare a Nel blu dipinto di blu, ma quelle popolari, anarchiche, che mangiano dentro mentre danno la forza di andare avanti.
È una notte un po’ così per lei, di quelle notti in cui i ricordi riaffiorano tra una sigaretta e un sorso di gin, in cui ci si guarda in cagnesco, sorridendo, imprecando, contro la luna, contro noi stessi, contro una Firenze che non c’è più, come non ci sono più quelle sue puttane che l’hanno attraversata lungo i corpi degli uomini che bussavano alle case chiuse.
Bruna è la notte è un “tuffo diaccio” in un presente tanto prossimo a quel passato in cui alla fine si stava male anche se c’era chi stava meglio. A noi allora – parafrasando Calvino – riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
E questa sensazione di filo diretto che Bruna è la notte è riuscita a creare, questa vicinanza tra la platea e il palco in cui si è costretti a guardarsi negli occhi, ci stimola a tornare alla relazione tra Scenica e il suo pubblico, i suoi abitanti, da cui avevamo iniziato.
Se da un lato l’eterogeneità di contenuti del Festival ne arricchisce la trasversalità (completando così una proposta performativa che si va ad aggiungere a quella più prettamente teatrale di Teatro aperto, sempre curata dall’Associazione Santa Briganti durante l’anno), dall’altro questa stessa varietà rischia di stemperare l’identità aggregatrice della rassegna, la sua forza prettamente sociale politica e culturale (cioè di riferimento per la polis), che invece crediamo dovrebbe continuare a coltivare, così da essere sempre più riconoscibile e riconosciuta.
Se Scenica riuscirà a creare relazioni più profonde con quello stesso territorio che coincide con la sua comunità di riferimento (e che per fortuna non equivale a quella degli addetti ai lavori), a stimolare momenti d’incontro nel tessuto urbano in cui il Festival si misura costantemente, e a foraggiare un dialogo che non tema la polemica per costruire un discorso critico della città, il ronzio del motore ape diventerà quello di una piccola regina nel Sud della Sicilia. Chissà che non ne possa nascere un alveare per la Trinacria.
(Foto ©Giovanni Battaglia)
Ascolto consigliato
Vittoria (RG), 13 e 14 maggio 2016