Jamal e Amina sono due ragazzi tunisini di vent’anni e si amano. Il loro è un amore vero, unico di quelli che capitano una sola volta nella vita. Jamal e Amina l’hanno sentito subito, dalla prima volta che si sono visti, e sempre quella volta hanno capito che il loro era un amore impossibile. Jamal e Amina appartengono a due tribù diverse, e secondo le leggi del loro paese non si possono sposare; ma il loro amore è talmente forte da non considerare questo divieto. Per anni si amano di nascosto, si incontrano di notte e restano insieme fino alle prime luci dell’alba: rischiamo molto, ma non possono fare a meno di vedersi. Un giorno Jamal non ce la fa più a nascondersi e decide di prendere Amina e partire. Con in tasca un indirizzo e un numero di telefono aspettano sulle riva della spiaggia il barcone che li porterà al di là del mare. Il viaggio della morte, molti lo chiamano, ma Jamal e Amina sono pronti a tutto pur di amarsi.
Non so i veri nomi di questi Giulietta e Romeo africani, ma Sabbia lo spettacolo di Riccardo Vannuccini realizzato con i rifugiati provenienti dall’Africa, ospiti del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto alle porte di Roma, ha parlato anche di loro.
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Sono tanti i racconti, le storie che riempiono il palco del teatro Argentina, ma il pubblico non le vede rappresentate in scena, non le sente recitate; riesce a percepirle attraverso i volti dei migranti, una massa umana scura che chiede aiuto e ci obbliga a fare i conti con la nostra coscienza. Spesso siamo solamente spettatori distratti e indifferenti degli sbarchi che quotidianamente avvengono sulle coste del nostro paese, ma Sabbia ci costringe a vedere, e lo fa con uno dei mezzi più rappresentativi della cultura occidentale: il teatro.
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Finalmente ci accorgiamo che sono come noi, parlano solamente lingue diverse e sono alla disperata ricerca di un’identità che è stata loro negata. Rimangono anonimi come i fogli bianchi sparsi sulla scena, si attaccano quasi morbosamente a piccoli oggetti, un cucchiaio, un paio di scarpe, nel tentativo di aggrapparsi alla dignità di essere uomini. E poi c’è il mare. Il Mediterraneo da sempre rotta di migrazioni, scambi di culture e tomba di milioni di morti.
Massimo Sestini Mare Nostrum. ©Massimo Sestini
Vannuccini ha preso tutti questi elementi e li ha fusi sulla scena rendendo protagonista una massa umana vivente racchiusa in forme sceniche che ricordano certe coreografie di Pina Bausch; non una sterile copiatura però, uno spunto da cui partire e organizzare una rappresentazione assai complessa, visto il numero degli attori coinvolti.
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Nonostante la difficile partitura di questa perfomance corale, incredibilmente tutto funziona. Gli ingranaggi dei passi, degli scambi vocali tra parti recitate e non convincono; e stupisce particolarmente la concentrazione degli attori, molto più concreta di tanti professionisti che hanno calcato il palco dell’Argentina.
Nel Teatro e il suo doppio, Antonin Artaud racconta di uno dei suoi viaggi in Messico, di una tribù in particolare, quella dei Tarahumara. Vivere con loro lo poterà a scoprire la vera essenza del fare teatro, racchiusa e implicita in quel modo di costruire narrazioni senza cliché e con una naturalezza estranea all’Occidente. Grazie a questa tribù primitiva e lontana dalla civiltà Artaud rifonderà il pensiero teatrale contemporaneo, scrivendo:
Se a teatro il testo non è tutto, se anche la luce è ugualmente un linguaggio, questo vuol dire che il teatro custodisce la nozione di un altro linguaggio, che utilizza il testo, la luce, il gesto, il movimento, il rumore. È il Verbo, la parola segreta che nessuna lingua può tradurre.
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Gli attori di Sabbia hanno usato questo Verbo, e noi abbiamo la fortuna di poterli vedere qui, “in casa nostra”, senza dover andare dall’altra parte del mondo, come fece il nostro Artaud.
Teatro Argentina, Roma – 12 giugno 2015