Resistere per esistere
La corsa come metafora della vita in 'Run' di Claudia Salvatore e Barbara Caridi
Siamo abituati a pensare che sia la mente a guidare il corpo, ma se fosse il contrario? Se invece fosse il corpo ad avere la capacità di forgiare il pensiero? Non a caso, Haruki Murakami ne L’arte di correre non soltanto racconta della sua attività di maratoneta ma soprattutto la storia di una piccola rinascita: di quando lo scrittore – fumatore accanito, in sovrappeso e in un periodo di cambiamento dopo la chiusura del suo jazz bar – trovò, attraverso la corsa, la disciplina necessaria per intraprendere la sua carriera e cambiare radicalmente stile di vita. Così la corsa, a ben vedere, non rappresenta una semplice attività ricreativa dissociata dalla realtà ma un vero e proprio modo d’essere che condiziona, plasma e trasforma il corpo ma soprattutto la mente. Corsa e vita corrono lungo lo stesso binario anche in Run, nuovo spettacolo di Claudia Salvatore e Barbara Caridi che trascina il pubblico dietro le quinte della spirale infernale che contraddistingue la vita di un’atleta professionista, mostrando sul palco del Teatro Studio Uno l’estrema fatica, la tenacia, il sacrificio e la frustrazione che comporta raggiungere qualsiasi grande risultato.
Allenamenti estenuanti di giorno e di notte, con la neve o il giorno di Natale, avere la presunzione di essere onnipotenti per poi precipitare di nuovo nella propria piccolezza, raggiungere quello stato di euforia rilasciato dalle endorfine insieme al dolore fisico che può compromettere la salute: è ciò che racconta Claudia Salvatore – fisico asciutto e nervoso, tenuta sportiva e trucco da guerriera – ora all’interno di un piccolo blocco di partenza disegnato a terra, ora osservando con sguardo determinato il pubblico disposto ai suoi lati che, eludendo la frontalità, diventa un testimone intimo e coinvolto della sua storia immerso in un’atmosfera cupa e claustrofobica scandita solo dal rumore di un battito cardiaco, luogo mentale appropriato di chi non può permettersi il lusso della paura o del fallimento.
«Perché lo fai?» è quindi la domanda ricorrente nella drammaturgia curata a quattro mani con Barbara Caridi – anche regista di una performance che deve ancora trovare il giusto equilibrio fra linguaggio del corpo e parola, in modo da rendere così alcune scene meno ermetiche, o didascaliche, e più organiche. Già, perché si fa quello che si fa? È l’interrogativo misterioso di tutte le passioni che si trasformano in “malattia” e Salvatore, la sua risposta, la cerca nel corpo: un corpo diviso fra l’accettazione e la repulsione di un’ossessione più grande di lei che ha fatto macinare chilometri a tante paia di scarpe consunte che ora invadono lo spazio per formare i contorni di una pista; o che la fa sbattere rabbiosamente contro il muro come se fosse uno specchio deformante o che ancora la fa sfogare a parole accompagnata dalla musica suonata dal vivo da Flavio Rambotti, mescolando senza soluzione di continuità frammenti di pensieri senza trama precisa a riferimenti ad atleti storici delle Olimpiadi.
«Chi te lo fa fare», quindi, a correre? Salvatore e Caridi rispondono a loro modo che si “resiste per esistere”: si riconoscono i propri limiti per conoscersi e superarsi, o almeno tentare. Forse a partire da una distanza misurata in passi si può colmare anche quella che separa da un obiettivo, o da una persona. O forse quella distanza è la stessa da percorrere dalla parte opposta per fuggire e correre ancora.
Ascolto consigliato
Teatro Studio Uno, Roma – 9 aprile 2017
In apertura: Foto ©Fabio Trisorio