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Rock, amore, morte, follia – Mark Everett

La quiete della Virginia è una delle figurazioni più rappresentative quando si pensa ai panorami degli Stati Uniti. Immerso in quei paesaggi immobili è cresciuto Mark Everett, cantautore intimo, dalla voce nebulosa e morbida, esponente dell’indie rock statunitense degli anni Ottanta e Novanta (più conosciuto con la formazione degli Eels, di cui lui è l’unico membro fisso). Sembrerebbe quasi impossibile immaginare che adun’infanzia nutrita da simili vedute da cartolina sia seguita una vita tormentata, che richiama alla mente più un mare in burrasca alla Courbet.

Rock, amore, morte, follia, è la versione italiana di Things the Grandchildren Should Know, l’autobiografia del, apparentemente, cupo interprete. A dispetto del piccolo guazzabuglio creato dal titolo italiano e dall’immagine di copertina – nella quale sono stati aggiunti teschio e chitarra al disegno dell’albero che campeggia in originale – è bene aspettarsi dal contenuto quanto di più lontano ci sia da ogni stereotipo della rock-star. Un ascoltatore attento che abbia seguito Mark in tutta la sua vasta produzione musicale avrà intuito molto del suo vissuto, ed è difficile che non ne sia stato incuriosito; la possibilità di approfondire la conoscenza di questo “Beautiful Freak” attraverso un’autobiografia risulta agli occhi degli estimati essere, quindi, un atto di generosità ben distante dall’autocelebrazione.

Calcando con passo certo le linee guida del memoir, “Mr. E.“ ripercorre la sua vita sin dall’infanzia. Gli avvenimenti che narra inizialmente, succedutisi sul palcoscenico di una tranquilla cittadina, su cui si alternano i componenti di una famiglia dalla piena apparenza borghese, suscitano tenerezza e compassione, ma tutto sommato si parla di un’infanzia un po’ solitaria, comune a molti. La straordinaria tenacia di quel paroliere così schivo viene fuori vigorosamente andando avanti nel racconto: la morte prematura del padre; il difficile cammino della sorella tra droghe e antidepressivi, terminato nel suicidio; le frustrazioni date dal non voler piegare la propria musica alla logica di mercato; e infine, quando la vita sembra rientrata in carreggiata (Mark è un musicista di successo che viaggia in lungo e in largo), la morte dell’unica radice rimastagli, la madre. Uno scritto tragico, quindi? No, un concentrato di coraggio e spudorato ottimismo.

L’armonia degli arrangiamenti di Everett, che riesce a far intuire passaggi angoscianti senza appesantire lo spirito di chi ascolta, si ripete perfettamente nel libro. Il racconto di avvenimenti esasperanti scorre infatti su toni lievi e canzonatori e lo sguardo rimane fisso su quelle “blinking lights”, lì per ricordargli che tornerà tutto a posto, di nuovo. «Così, alla fine vorrei dire che sono un uomo molto grato», dice Mark, ma probabilmente lo sarà anche il lettore al termine di queste poche pagine cariche di tanta ironia e romantico entusiasmo per la vita, perché a volte “It’s a motherfucker”, ma l’importante è trovare la propria “Novocaine for the soul” (la musica, nel suo caso), ed essere grati.

Grazie


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