L’impossibile possibilità dell’amore
Pommerat, Postiglione e la Riunificazione delle due Coree
«Allora non potevo sposarmi poiché, per quanto amassi sempre F., tutta la mia natura vi si ribellava».
Così Franz Kafka nei suoi diari, riflettendo sul rapporto con Felice Bauer, esprimeva l’angoscia nei confronti del proprio sentimento amoroso riassumendo, come spiega Pierre Zaoui ne L’arte di essere felici, quello che il filosofo francese chiama «l’intreccio dell’impossibile»: ovvero la tensione fra l’incapacità di essere soli e allo stesso tempo di stare con qualcuno, che contraddistingue le dinamiche dell’amore—quello infelice, per lo meno. È in questo scarto fra possibilità e impossibilità che s’insinua allora quest’ultimo: in un’appartenenza che è subito separazione, in un abbraccio che si vuole ma non può essere dato, nella volontà di abbattere le barriere ma allo stesso tempo lasciarle intatte affinché possa alimentarsi l’illusione. Insomma, una convivenza impossibile, proprio come può essere quella di uno stesso paese costretto a essere diviso in due. Così come per Kafka, questo “intreccio dell’impossibile” sembra infatti ritrovarsi anche ne La riunificazione delle due Coree del drammaturgo francese Joël Pommerat, per la regia di Alfonso Postiglione, in cui l’immagine evocativa del titolo è presa a prestito non per parlare di politica ma per soffermarsi, appunto, in una riflessione sull’amore inteso come due parti inconciliabili di un tutto.
Che sia l’unica ragione di vita, uno squilibrio ormonale, ridicolo, impossibile, passato o mai esistito, buffo, struggente, sbagliato o controverso, l’amore è l’unica cosa che accomuna i personaggi in una serie di quadri fulminanti (non tutti della stessa intensità, complice anche la consistente durata dello spettacolo) senza un vero e proprio filo narrativo, microcosmi indipendenti in cui Pommerat lascia scoppiare piccole tragedie irrisolvibili dal sapore quotidiano e allo stesso tempo artificioso, come se l’amore fosse un copione particolare e universale già scritto, uguale per tutti.
Fra citazioni di fiction televisive, film, dramma borghese e riflessi čechoviani, solo per citare alcune ravvisabili influenze rimescolate ironicamente nella drammaturgia, i frammenti di Pommerat si trasformano così nella regia rispettosa di Postiglione in piccoli gioielli di comicità, assurdità, malinconia e tenerezza, concepiti in uno spazio soffuso e spoglio (scene Roberto Crea) ma connotato sempre diversamente, sovrastato da una grande clessidra colorata che scandisce impietosamente il tempo e i movimenti degli attori (scrittura fisica Simona Lisi), all’inizio “neutri” in schiera e impermeabile per poi assumere via via i panni di personaggi sempre diversi.
Fra gli altri, genitori senza figli, coppie in sfacelo, una prostituta che chiede del sesso senza denaro in cambio, un’anziana senza memoria per cui l’amore è diventato una categoria priva di referente, tutte sfaccettature di vite diverse che i nove interpreti (Sara Alzetta, Giandomenico Cupaiuolo, Paolo De Vita, Biagio Forestieri, Laura Graziosi, Giulia Innocenti, Gaia Insenga, Armando Iovino, Giulia Weber) riescono a valorizzare in un lavoro corale di grande armonia e capacità interpretativa, oscillando fra aderenza emotiva e distacco, per dar vita a sagaci, esilaranti contrasti.
A lungo andare, però, questa carrellata intensa e brillante di scene lascia un po’ confusi. Forse perché al meccanismo essenziale di tesi e antitesi su cui è costruita la drammaturgia – una parola che dice il suo opposto, una situazione verosimile che si rovescia nell’inverosimile, una verità che in realtà è menzogna – sembra mancare un elemento di sintesi capace di dare maggiore coesione alla messinscena. Certo, non si potranno “riunificare le due coree” ma forse metterle in ascolto sì, per indagare più a fondo quell’ impossibile possibilità dell’amore, parafrasando Zaoui, da cui dipende sia il dolore che la felicità.
Ascolto consigliato
Teatro Vascello, Roma – 28 marzo 2017
(In apertura: Foto di scena ©Marco Sommella Ag. Cubo)