Ritratto di una Capitale – Antonio Calbi | Fabrizio Arcuri
La scorsa settimana Roma ha accolto uno di quegli eventi che molto probabilmente fra vent’anni verrà ricordato con una certa nostalgia, ma di cui nell’ultimo mese, un po’ per la fretta, un po’ per economia, un po’ per le non poche diffidenze nei confronti del suo ideatore Antonio Calbi (Direttore del Teatro di Roma), e un po’ perché – come ancora una volta è emerso – la capitale è smagliata, non se n’è parlato abbastanza. Di cosa si tratta? Ritratto di una capitale è un vasto mosaico teatrale composto di 26 voci (i testi commissionati), 40 volti (gli attori coinvolti) e circa 12 ore di rappresentazione (per tre repliche al Teatro Argentina: due spezzate in due giornate da sei ore, e una nell’integrale maratona dalle 15 di sabato alle 3 di domenica).
Al netto di ogni critica, l’impresa titanica è certamente riuscita. Certamente perché (come evidenziato questi giorni da Anna Bandettini e Renato Palazzi) un progetto così monumentale ha restituito all’urbe un volto esistente eppure troppo spesso dimenticato, cioè quello di una realtà viva che proprio nella sua spropositata e contraddittoria eterogeneità trova la sua vera unica e possibile identità. Possibile, dunque, ma anche appetibile. Gli spettatori infatti non sono mancati: c’erano i curiosi, i critici, i volti celebri, i teatranti, gli stranieri, gli imbucati, gli amici e parenti, gli scartatori selvaggi di caramelle, i tossitori compulsivi, gli esploratori di palchetti, quelli che non ci sentono e quelli che la musica è troppo alta, quelli che “oh ma la vòi smette’ de chiacchiera’”, quelli che “e te ‘r telefono non lo sai smorza’”, e quelli che “ma proprio a me ‘sto capoccione me doveva capita’”. Insomma, l’evento speciale ha richiamato all’Argentina un pubblico alquanto variegato, e, involontariamente, da un punto di vista sociale, ha fatto anche di più. Già, perché nella giornata di sabato, dopo le prime ore di canonica e composta impermeabilità dei singoli gruppetti, man mano, un intervallo dopo l’altro, in quei venti minuti di pausa che duravano sempre troppo poco, l’inevitabile stanchezza ha avvicinato un po’ tutti, abbassando la soglia dell’esclusività. L’estraneo fastidioso si è fatto volto familiare, tutt’a un tratto riconoscibile, specchio dei propri contenuti sbadigli, parente prossimo di sigarette, risate e applausi.
Insomma, Ritratto di una capitale va preso per quel che ha, davvero, rappresentato: un evento. Un ritratto che ha fatto, sì, teatro ma non (solo) sulla scena, anche collettivamente. Con tanto materiale incandescente cui dare rapida forma, l’instancabile e attento Fabrizio Arcuri si è dovuto reinventare fabbro della scena, fuochista di atmosfere, sindaco-capomastro di una vera e propria città traslata sulle assi del palcoscenico; a sostenerlo in questa fucina dai ritmi frenetici l’importante contributo visivo di Luca Brinchi, Roberta Zanardo (Santasangre), Daniele Spanò e quello musicale del gruppo Mokadelic che ha suonato dal vivo. Come ha sottolineato lo stesso Arcuri su Teatro&Critica (intervista a cura di Sergio Lo Gatto), Ritratto di una Capitale “è una sorta di happening di 12 ore in cui si incontrano diverse dimensioni ed elementi che entrano in sintonia o in dissonanza con lo spettatore proprio perché certe cose vuoi vederle e altre le rifiuti”.
Parlarne “criticamente”, dunque, come si farebbe di un “normale” spettacolo, ha poco senso, così come altrettanto complesso e infruttuoso sarebbe cercare di riassumere i singoli frammenti del progetto. Forse è interessante, invece, restituire lo sguardo complessivo che emerge dai quadri dei ventisei ritrattisti chiamati a raccontare la città, ma non tanto per offrire un affresco della capitale bensì per avvicinarci alle prospettive scelte. Se c’è una cosa che salta subito all’occhio è un’immagine amara, che ha il retrogusto del cinismo romano: “A parità, parlo di quel che va male”. Ed è un dato che effettivamente non sorprende: da parecchi anni a questa parte la classe culturale italiana si è come ingolfata in questa ritrattistica fotografica un po’ disillusa, un po’ moralizzante, un po’ depressa; è come se anche gli intellettuali fossero stati risucchiati dalla “sindrome da big data“: si analizza, si studia, si destruttura, si denuncia, si polemizza, ma a conti fatti non si propone più – non si crea più. Il post-moderno non sembra più una condizione ma quasi una stretta rassicurante in cui rifugiarsi: si canta una fine che non arriva mai e già che non arriva ci si fa nostalgici. Il guaio più grosso, però, è che, nel malcontento generale, “melanconia denuncia e moralismo” riscuotono sempre un immediato consenso di pubblico; “guaio” perché non si tratta di una compartecipazione sentita e duratura, bensì di un effimero consenso pop da social network: un “mi piace” tra il video dei gattini e il gioco schiaccia-caramelle.
Forte – e certamente necessaria – è stata la testimonianza delle periferie abbandonate, la voce delle nuove culture non più così straniere, e l’omaggio allo splendore artistico eternato nella pietra; ma come ci ha ricordato Strinati, “a tutelare Roma è stata l’indifferenza”. A mancare spesso (ma – chiaramente – non sempre) nelle narrazioni presentate, infatti, sono stati proprio il senso della durata, l’utile lentezza, il circolo virtuoso: l’impegno, insomma, parola che ormai suona politicizzata, quasi fosse soltanto un retaggio della vecchia sinistra, ma che invece innanzitutto significa esporsi in nome di un’idea e non puntare il dito o combattere per riparare a un torto. Va meno di moda e dà effetti meno immediati e clamorosi, ma esiste anche l’impegno alla sensibilità, alla compassione, all’umiltà, alla lungimiranza, al buonumore.
È per questo che, a nostro avviso, a colpire di più sono proprio i ritratti come quello di Scarpetti, ad esempio, che come già aveva dimostrato in Viva l’Italia mostra realtà complesse senza giudicare ma indagando piuttosto le cause emotive di un male atroce eppure “normale”; oppure l’irresistibile e acutissimo squarcio di realismo tratteggiato da Paravidino, in cui finalmente la romanità esce fuori genuina, divertente (quasi quanto la presenza esilarante di Andrea Rivera) e graffiante; ma anche la semplice e preziosa umanità degli incontri – possibili o immaginari – di Magrelli, Ravera e Affinati; per originalità ed efficacia, poi, non si può comunque fare a meno di annotare i ritratti di Ricci/Forte (una crudele via crucis felliniana), Frosini/Timpano (un’emanazione – decisamente più penetrante e affascinante – di Zombitudine) e Stancanelli, che, quest’ultima, con i suoi Angeli Cacacazzi (i carismatici Sandro Lombardi e Roberto Latini) ci ha lasciato ricordare il poeta Victor Cavallo, in un omaggio intelligentemente barcollante fra passato e presente. E proprio a proposito del poeta romano e della Roma degli anni 80 ritorna alla mente A proposito di Roma di Enrico Eronico, e le analoghe critiche, già allora, all’amministrazione locale, alla cementificazione selvaggia, allo scollamento popolare; e al tempo stesso anche la celebre poesia di Remo Remotti (che giusto una settimana fa ha compiuto 90 anni) in cui l’artista romano rievoca a sua volta lo sfacelo della Roma degli anni ’50.
Ora sono passati più di venticinque anni da quel film e chissà quanti altri dalle tante Roma dell’ultimo secolo, e ancora oggi, ancora una volta, ritornano le stesse contraddizioni, le stesse denunce, gli stessi rimpianti: qualcosa è cambiato ma non abbastanza. Questo sembrerebbe, insomma, il ritratto complessivo – maggioritario – della capitale. Ma non c’è da buttarsi giù: i Romani son fatti così, dicono peste e corna della loro città eppure non c’è altro posto al mondo in cui vorrebbero vivere.
Piuttosto, sorge una domanda: quanto altro si sarebbe potuto raccontare? Quanto ci costa anteporre la denuncia al progresso reale? E soprattutto, una volta detta o mostrata la realtà, cosa si fa?
Teatro Argentina, Roma – 22 e 23 novembre 2014