Il fascino del male
Allo Schaubühne il Richard III di Ostermeier confessa la sua attualità
Cosa significa essere attuale? E quanto dura? È una questione di tempo? «Le cose attuali esprimono idee ma non sono causate da esse» scriveva Deleuze, come a dire che tutto ciò che facciamo – ora – manifesta una pulsione, un movimento interiore, una contrapposizione di spinte, ma non ne è il risultato ne è solo la testimonianza.
Un esempio concreto? Si prenda la retorica propagandistica renziana: essa non è il frutto di una politica che tenta di attuare un ponderato processo di storicizzazione; essa, piuttosto, nella sua sterilità manifesta soltanto un’omologazione acritica al modello dominante dell’affermazione neoliberista, della vanità consumista, dell’infantilismo 2.0. Renzi non è così fatuo perché decide di attuare consapevolmente un processo di conformismo, ma al contrario è fatuo perché si lascia agire da esso. È per questo che egli non è attuativo né attuale, egli è solo la forma vuota della sua propaganda (per non sperare di peggio): non esprime idee, le esprime suo malgrado.
Attuale, invece, è solo ciò o colui che volontariamente attua qualcosa, esprimendo attraverso tale attuazione una manifestazione di intenti. Ecco perché «fare tanto per non rimanere fermi» non agisce un bel nulla. Ecco perché, parimenti, «fare teatro come atto di resistenza» è di per sé un’altra bella formula vuota al pari della retorica renziana. Ed ecco perché sentir parlare, a ogni anniversario del caro estinto di turno, di «attualizzazione dei classici» vuol dire tutto e non vuol dire niente. Non è infatti l’opera che va attualizzata, è chi la rifà e chi vi assiste, semmai, che deve attualizzare sé stesso in essa.
Ebbene, con il suo Richard III, a Berlino Thomas Ostermeier ci dimostra che attualizzare è un atto di creazione cosciente.
D’altronde, se dopo quattrocento anni Shakespeare (o chiunque identifichiamo sotto tale nome) si conferma sempre attuale è perché – innanzitutto – parla di uomini. Il contesto dei suoi play – che sia storico, favolistico o prettamente sociale – è di per sé solo un pretesto per vederli agire; ma gli uomini, in quanto tali, finora non sono cambiati granché, hanno semplicemente elaborato forme sempre più sofisticate di relazionarsi.
Non deve sorprendere, allora, se per l’occasione il regista tedesco dia un bel taglio all’opera, dimezzando l’ingente mole del testo (il più lungo tra gli shakespeariani dopo Amleto), e semplifichi la complessa contesa dinastica tra York e Lancaster, la cosiddetta «Guerra delle due rose». Poco importa se il Riccardo III del Bardo sia veramente il conte di Gloucester (il quale, fra l’altro, come scoperto recentemente, non era affatto deforme), o se abbia davvero orchestrato un piano tanto machiavellico e spietato per ascendere al trono d’Inghilterra, ciò che fa davvero la differenza è come egli ci appare. E non c’è dubbio: Riccardo si presenta come uno dei personaggi più affascinanti della letteratura europea di sempre.
È proprio su questo aspetto che si sofferma la messa in scena di Ostermeier. Questa la sua «attualizzazione» del Riccardo III: trasmettere l’incontestabile fascino di un personaggio tanto esecrabile quanto carismatico. Come avviene? Avvicinando pubblico e attori alla materia pulsante dell’opera.
Lo si può notare subito, prendendo posto tra le file circolari della sala C dello Schaubühne che per l’occasione viene trasformato in una sorta di Globe londinese: il palco, affacciato direttamente sul pubblico, immerge gli attori nella platea e gli spettatori nella scena.
Legno, terra, metallo. Dal fondo, al centro della doppia impalcatura, un tappeto appeso a mo’ di arazzo, come porta, che lascia scivolare morbidamente gli intrighi e li insabbia con molle sottigliezza. In linea retta, oltre il proscenio, la fossa, da cui le verità del di fuori si riversano crude e sporche in scena. È quasi un’arena senza tempo, pronta per il gioco al massacro (il ritmo sarà scandito traumaticamente dalla batteria rock progressive dal vivo di Nils Ostendorf). Riccardo in fondo non sarebbe così crudele se gli altri non fossero tanto avidi e ipocriti. Ma la differenza sta proprio qui: egli sceglie il male, lo abbraccia, lo persegue, non è un inevitabile mezzo di cui suo malgrado si deve servire. Egli non è il Raskol’nikov di Dostoevskij che uccide per scoprire se sia un uomo al di sopra del bene e del male, non è la Medea euripidea che assassina i suoi figli per onorevole vendetta, non è il Meursault di Camus che spara per apatia del suo vivere; Riccardo è estremamente più freddo e centrato, egli sa che le sue «[un]fair proportions» gli impediscono di essere amato, sa che per sé l’amore non potrà che essere una frustrazione, e allora è «determined to prove a villain». E per questo affascinerà quanto un Lucifero miltoniano.
Il male, infatti, è affascinante perché è insito nella natura dell’uomo: tutti lo coviamo, è solo la misura – il senso morale (sincero o indotto che sia) – che ci porta poi a ridimensionarlo, sedarlo, nasconderlo o addirittura rinnegarlo; esso tuttavia agisce comunque in profondità, e sa pur procurare un piacere perverso, il piacere del proibito.
Così, sul palco della Schaubühne la scena diventa la dimensione esitenziale del male di Riccardo (notevole l’interpretazione di Lars Eidinger, magnetico senza istrionismi di sorta). Dalla graticcia cala un microfono-torcia-videocamera che fa del protagonista il grande arbitro-mastroburattinaio di questo ring dinastico: luce di verità, proiettore di spettri, megafono psicologico, attraverso questo oggetto Riccardo si confessa con il pubblico, quasi a tu per tu, alimentando la sottile ironia (a tratti esilarante a tratti agghiacciante) delle continue menzogne e sciatterie che egli dissemina con falso candore nelle scene corali.
Il pubblico, infatti, nonostante tutto non può fare a meno di parteggiare per lui. C’è una tale arte nelle sue macchinazioni – e al contempo una tale banalità nella avidità degli altri personaggi – che questa continua intimità rivelatoria sibilata al microfono innesca un’intesa proibita e suadente: il pubblico si sente confidente privilegiato di un segreto inconfessabile. E non può che goderne.
Ostermeier dunque non solo coinvolge, o meglio, immerge attivamente il pubblico nello spettacolo (senza mai lasciar cadere nel vuoto una risata o uno starnuto, sia con un’occhiataccia o un sorriso sarcastico degli attori), ma fa sì che tale immersione assuma una valenza ben precisa.
Un’operazione complessa ma mirabilmente organica, la sua, che si dispiega per due ore e trenta con ponderata immediatezza. Questo Richard III rappresenta un felice esempio di come una sostanziosa produzione possa impiegare i suoi fondi per costruire uno spettacolo ricco, intelligente, universale e decisamente bello da vedere. Non solo. Esso dimostra altresì che il «pop» ha un potenziale vastissimo; che «avvicinare» non vuol dire banalizzare (i momenti di grandeur qui hanno pur sempre una fatuità voluta e ironica); che quando il teatro «accade» il pubblico si concede totalmente, perfino laddove tale apertura rischi di ritorcerglisi contro.
E proprio questo è il punto più alto dell’intuizione di Ostermeier. Fa paura parteggiare per il male. Ma fa assai bene, perché anche questo siamo. Riccardo, il suo male, agisce senza confini di tempo in noi e noi agiamo in Riccardo.
Questa è attualità.
Ascolto consigliato
Schaubühne, Berlino – 1 maggio 2016
Crediti
Direction: Thomas Ostermeier
Stage Design: Jan Pappelbaum
Costume Design: Florence von Gerkan
Collaboration Costumes: Ralf Tristan Scezsny
Music: Nils Ostendorf
Video: Sébastien Dupouey
Dramaturgy: Florian Borchmeyer
Light Design: Erich Schneider
Puppenbau: Ingo Mewes, Karin Tiefensee
Puppentraining: Susanne Claus, Dorothee Metz
Fight Choreography: René Lay
Richard III: Lars Eidinger
Buckingham: Moritz Gottwald
Elizabeth: Eva Meckbach
Lady Anne: Jenny König
Hastings, Brakenbury, Ratcliff: Sebastian Schwarz
Catesby, Margaret, Erster Mörder: Robert Beyer
Edward, Bürgermeister, Zweiter Mörder: Thomas Bading
Clarence, Dorset, Stanley, Prinz v. Wales (als Puppe): Christoph Gawenda
Rivers, York (als Puppe): Laurenz Laufenberg / Bernardo Arias Porras
Schlagzeuger: Thomas Witte