Regredire per rinascere
Nel 'Film' di Vincenzo Schino/Opera il teatro diventa ricerca della vita
Per cogliere la sensibilità di Vincenzo Schino non si può fare affidamento al teatro, non a ciò cui siamo abituati a chiamare teatro, a meno che non si sposino le parole di Attilio Scarpellini – probabilmente il più sensibile fra i critici italiani –:
«c’è teatro […] soltanto se gli spettatori che escono non sono esattamente le stesse persone che sono entrate. Per questo il teatro comincia dopo lo spettacolo, con la sua fine.»
Certo, uno spettacolo (o comunque lo si voglia chiamare) è qualcosa che pur deve accadere in uno spazio e in un tempo circoscritti; eppure ogni volta il rischio è che tutto si arresti allo spettacolo stesso, che l’opera inglobi e rilasci senza invischiare neanche un po’ del suo liquido amniotico. Perché in fondo ogni opera è una gravidanza, cioè un’inseminazione dall’esterno che viene coltivata; e ogni spettacolo è un parto, cioè un atto di messa al mondo, di creazione esposta. E allora adottiamo le parole di Scarpellini e fissiamo questo primo apparente ossimoro: il teatro è qualcosa che viene a esistere quando ciò che l’ha partorito finisce.
Ma perché tutto questo arzigogolo per parlare di uno spettacolo? Perché Film è un’ipnosi regressiva. Regressione a cosa? Ecco, il punto è proprio questa domanda: non “dove ci porta” – lo spettacolo – ma a cosa ci fa fare ritorno.
Qui non c’è recita né rappresentazione né tantomeno una scena tout court. Film.Macchina della vista e dell’udito è un’ipotesi: sono parole e sono quadri di immaginazione. Prima vengono i versi della poetessa Florinda Fusco, pronunciati – nel buio – da Catia Gatelli seduta come uno spettatore tra spettatori, una voce tra voci; poi giungono i dipinti di Pierluca Cetera che – nel silenzio – scivolano lentamente davanti agli occhi dei presenti scorrendo tra due rulli come un’unica pellicola. La creazione è ancora in via di sperimentazione, in cerca di equilibrio: è la prima volta infatti che Schino si affida alla parola parlata e, per ora, la presenza di questa non sempre riesce a trovare la giusta dimensione, il giusto respiro. Ma ad ogni modo.
Si parte dalle parole di Milton Erickson (il padre dell’ipnosi terapeutica moderna) che innescano il film esistenziale in cui dovremo immergerci, cioè “in noi stessi”, nella nostra sensibilità più taciuta:
«E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola […] che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto tanto tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato »
Da qui giungerà la voce della poesia a raccontarci – a raccontare “noi” – guidandoci in un doppio processo di regressione e rinascita. Il teatro infatti corre sempre su un doppio binario: prima fa tabula rasa del quotidiano proponendoci una realtà altra (la rappresentazione), poi però poco a poco svela un’eco sempre più universale ed ecco che quella realtà “altra” d’improvviso diventa “nostra”: una “x” che è tanto incognita quanto può esserlo la consapevolezza della nostra stessa esistenza; così che, a un tratto, individuo (extra-teatrale) e spettatore ricominciano a correre di pari passo: i binari si riassestano e la visione dello spettacolo si fa introspezione di sé al di fuori di sé.
«Eccomi sto girando – giro intorno a me – sto ballando – […] guarda i miei seni stanno rientrando – non ho più peli – guarda i buchi del corpo si rimarginano – non ho più fessure-aperture – la pelle si assottiglia, le ossa si fanno esili – guarda ora il mio corpo scompare – adesso non potete più vedermi – posso camminare in mezzo a voi, dentro di voi, posso attraversarvi – […] io sarò buio per voi – sorvolerò le vostre teste – ne ascolterò i pensieri – vedrò ciò che vede la vostra immaginazione – balabalabalabala-bla la la-bla la la- balabalabalabala-bla la la-bla la la balabalabalabala-bla la la-bla la la.»
Analogamente in Film i quadri compiono il medesimo itinerario: straniamento, regressione, rinascita. Perché il corpo deve vedersi estraneo, deve non capirsi per innescare il moto consapevole della comprensione. E non è un caso, ci sembra, che le tele di Cetera ricordino così tanto le trappole di Francis Bacon e lo straniamento di Lucian Freud: è un processo di morsa e distacco, che lascia accedere a uno strato di coscienza più genuino solo dopo aver distrutto maschere e accettato distorsioni.
Ed è proprio qui che giunge allora l’azione poetica di Vincenzo Schino, impercettibile e fondamentale, registica-artistica, cioè mano invisibile dietro, anzi, dentro la creazione. Mentre le tele scorrono, l’occhio di luce proiettato dall’artista su di esse scruta dettagli, accende particolari, taglia, smembra, perfora, concentra l’attenzione su una sezione, scolpisce il pieno e il vuoto; ma poi il faro si sposta e lo sguardo scopre altro, altro che spesso non riesce a coniugare con l’idea che quel primo fuoco aveva innescato; e quando infine l’immagine si rivela nella sua interezza raccogliendo tutte le sue sfaccettature ecco che una nuova luce giunge da dietro il dipinto mostrando, come in negativo (date le diverse stratificazioni di vernice), tutt’altra figura. Come una macchia di Rorschach ci costringe a interrogarci sul nostro stesso guardare, sulle nostre convinzioni. Straniamento, regressione, rinascita.
Per ritornare al quesito iniziale, dunque, Schino/Opera “ci porta a fare ritorno” a ciò che siamo già ma che solo una volta esaurito (cfr. con la definizione di teatro di Scarpellini in apertura) possiamo cominciare a comprendere. Film incarna ciò che Hegel chiamava il volo della nottola di Minerva («Quando […] un aspetto della vita è invecchiato […] esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.»)
Insomma, la conoscenza si può accendere soltanto quando tutto si è già spento.
«Ho visto me stessa bambina e simultaneamente ho visto me stessa ragazza e donna e anche vecchia e ho visto il mio corpo senza vita. E ho visto il mio corpo nel feto e fuoriuscire con una cascata di acqua. Ho visto l’espansione e la contrazione dell’universo, la sua implosione finale in un ultimo singhiozzo.
Da allora ho iniziato a ridere e più rido più dimentico me stessa.»
Ma allora un tale percorso che senso ha? si chiederà forse qualcuno. Forse nessuno, ma pur ci è inevitabile farlo; quindi alla fine di questa lungo viaggio di regressione e rinascita ci ritroveremo talmente rivoluzionati da s-mettere l’umana comprensione e abbandonarci alla maestosa incomprensibilità dell’universo (e Film si concluderà in una sterminata sfilza di formule che ognuno potrà interpretare liberamente come delirio di scienza-sapere o come ritorno al cosmo).
O forse, come teorizzò il filosofo tedesco, ha senso perché è solo in questo apparente ritardo che giace l’unica conoscenza possibile: solo attraverso questo scarto consapevole e accettato il presente (la comprensione maturata) può alterare il passato (l’esperienza nuda) anziché viceversa (rassegnarsi di esserne costantemente vittima).
Eccola la vera regressione. Eccola la vera rinascita. Ecco perché non essendolo, Film è teatro nella sua forma più pura.
• Eco, o lo scacco della visione – Vincenzo Schino | Opera, di Giulio Sonno
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Teatri di Vetro, Fondazione Volume, Roma – 23 settembre 2016
Foto:
Film (foto di scena) ©Mariangela Loffredo (TerniFestivabb3