Locandina

Quietly – Marco Foschi | Paolo Mazzarelli

Accade talvolta che, entrando in una piccola sala teatrale, ci si senta accolti da un abbraccio invisibile d’intimità. Uno stato di grazia e tepore che diventa emozione immediata e inattesa non appena il palcoscenico si riempie di vita. È successo al Teatro Belli in occasione di Quietly (del drammaturgo nordirlandese Owen McCafferty), spettacolo di apertura della tredicesima edizione di Trend – nuove frontiere della scena britannica, “on stage” fino al 17 novembre.

Marco Foschi e Paolo Mazzarelli adattano, dirigono e interpretano superbamente il confronto di due anime, due corpi, due memorie che prendono forma da un passato lontano e sbiadito; un tempo assente e impalpabile che non appartiene più a nessuno, ma che, tuttavia, schiaccia e attanaglia le loro menti imprigionandoli in un dolore astratto e assiduo.

Jimmy (Foschi) – claudicante, sigaretta tra le labbra e sguardo irrequieto – e Ian (Mazzarelli) – composto nel suo cappotto nero, abbandonato a una rassegnata pacatezza – sono coetanei, oggi uomini adulti, che s’incontrano nel retro di un pub nel centro di Belfast: quello che un tempo è stato teatro di un attentato dinamitardo, attuato da uno di loro, che costò la vita a sei uomini, tra i quali il padre di Jimmy. Qui, in questo luogo angusto e semibuio, tutto sembra interrotto, immobile: i fusti di birra impilati, un tavolino da bar e alcune cassette da frutta coperti da un telo, una bandiera dell’Irlanda che a malapena si regge a un grosso finestrone.

È la quiete che precede uno scontro colmo di rancore e frustrazione, di rimorso e disprezzo, di vendetta e di remissione. Uno confronto atteso, bramato e temuto, ma necessario per spurgare quella ferita ancora pulsante comune ai due allora sedicenni: uno, (in)colpevole reclutato dai nazionalisti e annegato nell’incoscienza, e l’altro che, inerme e impotente, sentiva strapparsi via una persona amata.

Tra sguardi pieni di rabbia per una vita derubata, sprecata, e occhi mortificati traboccanti di una memoria colpevole, tra parole ardenti soffocate nei fiati e gesti di veemenza interrotti nelle carni, un’onda delicata e impetuosa di tensione emotiva scivola dalla ribalta, invadendo lentamente il petto dello spettatore. E, mentre le immagini svaniscono nel buio, come fumo di ricordi, un violento e convulso quesito martoria la nostra mente e prosegue anche a luci spente, anche fuori dal teatro: cosa resta di chi sopravvive al passato, al dolore dell’ingiustizia, al sanguinamento della perdita? E di chi è responsabile, di chi è auto-condannato ad ascoltare lo scricchiolio delle proprie ossa, strette nella morsa nel senso di colpa? Cosa rimane di queste esistenze lacerate e dei loro corpi svuotati di anima e lacrime?

Grazie


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