Quel teatro che mente sapendo di mentire
Finti dialoghi sulla verità
Eccola là… un’altra provocazione! Non sanno più cosa inventarsi per farsi leggere.
Caro lettore, ciao. Sì, se lo stai pensando non hai tutti i torti: il titolo in effetti è un po’…
Esagerato.
Suvvia, si fosse chiamato «Fenomenologia mimetica nel teatro contemporaneo» tu l’avresti aperto?
Ora sarebbe colpa mia?
Prova a capire, la critica è messa male, non se la fila nessuno, bisogna arrangiarsi.
Senti, non pagate il biglietto, vi mettono sempre in prima fila, mangiate a quattro palmenti e scrivete solo se vi va. Quando lo fate, poi, è tutto arzigogolato. Quindi vedi di sbrigarti che sennò chiudo.
Ma sbrigarmi a far che?
A dire cos’hai visto e com’è.
Ma tu chi?
Ti firmi pure, che ti devo stare a spiegare?
Non crederai mica che io sia quel nome-e-cognome scritto lassù?
E tu credi forse invece che io sia un lettore?
Touché! Già: è tutto finto.
Non ce lo potevamo risparmiare allora?
Nient’affatto. Se io son finto, tu sei finto e il nostro dialogo è finto, ciò non basta ancora a dirci cosa sia veramente vero. Ci dice solo cosa è veramente finto. Ecco. Qui si parlerà di artifici e di verità.
E di teatro?
Per l’appunto. Torniamo al titolone. Tu, quando vai a teatro, cos’è che vai a guardare?
Uno spettacolo.
Sia pure, ma le persone che vedi in scena ci sono o ci fanno?
Devi provocare per forza?
Insomma—fanno per davvero o fanno per finta?
Fanno cosa?
Ecco, questo non è chiaro. Secoli di diatribe, manifesti, accademie, fiumi di inchiostro. Niente. Non si capisce. Castellucci, Lavia, Salemme, Delbono… tutto teatro!
Non si saranno ancora messi d’accordo. Ma che importa?
Non sarà invece che a far finta sia lo spettatore?
Lo spettatore?
Sì. Tu ad esempio quando vai a teatro e vedi in scena uno con la corona che fa il re: lo prendi per un re o per uno con la corona che fa il re?
Uh come la fai complicata. È teatro! Com’è che si chiama?
Il principio di sospensione d’incredulità?
Quello lì! Non è che devi stare troppo a questionare. Il teatro è teatro, funziona così.
Quindi fondamentalmente il teatro si riduce a: far finta di credere a uno che fa finta di essere qualcuno?
Detta così non mi piace, fa sembrare tutto finto.
Per l’appunto. Con una distinzione però.
Sarebbe?
Che c’è chi fa finta per davvero e chi fa finta per finta.
Vale a dire?
Che chi fa finta per davvero non ti chiederà mai di prenderlo per vero.
E chi fa finta per finta sì?
Sì e tanto gli basta. E spesso più tu ci credi, più finisce per crederci pure lui. E poi crederà di essere un professionista. Un attore di professione. Si fregerà di applausi, di premi, di riconoscimenti, tanto che continuerà a tenere quella parte finché gli altri continueranno a farglielo credere. La parte di un attore che credeva di essere un attore.
Sembra una vita triste.
Sembra anche a me. Ma a molti piace. Pensa a Chiara Ferragni o a Matteo Salvini.
Questi qua adesso che c’entrano?
Anche loro sono attori. Attori che fanno per finta.
Senti, facciamo che ho capito. Veniamo agli spettacoli?
Partiamo da Sergio Blanco. Uruguayano, classe ’71, drammaturgo e regista: per la prima volta in Italia debutta a VIE festival nello Storchi di Modena con El bramido de Düsseldorf.
Il bramito è il verso del cervo?
Sì, tipo canto del cigno. Lo spettacolo gira attorno alla morte del padre di Blanco mentre i due erano in Germania.
Scena bianca, semi-sgombra, qualche sedia, una rella con abiti.
Tre attori. Uno fa il padre, uno il figlio, e la terza i vari altri personaggi.
E l’azione? Cosa accade?
L’azione manca, o meglio, tutto si gioca attorno alla rievocazione di quei giorni a Düsseldorf, in una continua oscillazione fra rappresentazione degli eventi e loro messa in discussione. E così l’atto teatrale, nel suo farsi e disfarsi, viene continuamente svelato. Tipo:
PADRE A un certo punto dovrai raccontare la verità.
FIGLIO Io dovrò dire la verità, ma tu hai travisato tutta la scena.
PADRE Abbiamo appena iniziato e stai già facendo le cose male. Non avevamo concordato questo.
Praticamente un gioco postmoderno…
Sì, ma c’è anche molto ebraismo talmudico.
Tal-che?
Quel continuo arrovellarsi in interpretazioni bibliche infinite che tanto piaceva a Kafka e che tanto, se vogliamo dircela tutta, assomiglia alla ricerca del senso della vita. Solo che una soluzione giusta non c’è.
Ma quindi se tutto è possibile e tutto è discutibile, cosa rimane?
Rimane la possibilità generata dall’artificio. Ti faccio un altro esempio:
FIGLIO Perché stavano chiamando me?
PADRE Per l’oscenità.
FIGLIO Perché dici questo?
PADRE Perché sei tu che me lo stai facendo dire.
Come noi?
Come noi. Tutto sembrerebbe falso ma è solo finto. Nessuna verità può essere data a priori, è l’artificio che con i suoi veli segna la strada per lo svelamento.
Alla fine uno svelamento c’è o no?
Difficile rispondere. È un fatto relazionale, come nella relatività, che viene influenzato dallo stesso voler osservare e quindi dal volerci trovare una verità. La verità, però, non è qualcosa coperto da un velo che va svelato, ma è lo svelare che la rivela. Sembrerà un gioco di parole, però se vedi il Macbeth di Carmelo Bene con il suo gioco di bende e ferite capirai cosa intendo.
Tipo Milo Rau?
Repetition insiste molto su questa ri-evocazione raddoppiata di una realtà.
È quello sull’omicidio del ragazzo gay a Liegi?
Sì, come per El Bramido, anche in questo caso vengono prima presentati gli attori in quanto (presunti) tali, e poi si gioca in questa asimmetria tra la scena interpretata dal vivo dagli attori e la (medesima) scena proiettata nello schermo sopra le loro teste.
Rau però, al contrario di Blanco, a un certo punto comincia a fare finta per finta.
Dici quando alla fine diventa più drammatico? Però è dichiarato. E il livello è decisamente alto.
Senza dubbio, ma è una questione di coerenza interna del lavoro. E di economia di segni. Rau infatti pian piano scivola nell’auto-compiacimento e quindi nell’esaurimento della formula adottata: tradendola non per decostruzione ironica bensì per urgenza politica.
Che tradotto per noi comuni mortali vuol dire?
Che la critica che vuole muovere gli preme talmente tanto da non badare al fatto che quella caduta nel patetismo verso la fine (la violenza posticcia in macchina, il racconto lacrimoso dell’ex-fidanzato, l’attore al cappio) commuoverà pure il pubblico ma depotenzia la critica stessa, riducendo il teatro a un mezzo per quel fine.
Insomma, l’artificio non è più rivelato nella sua evidente finzione ma viene sfruttato come mero espediente, tradendo così l’intero spettacolo.
Questa sarebbe la solita critica per cui l’arte impegnata è un arte minore, o dici così perché lo spettacolo è piaciuto a tutti e devi fare il bastian contrario?
Guarda, a Polverigi quest’anno, durante InTeatro, c’è stato uno spettacolo di Andrea Costanzo Martini che sembrava la parodia innocente di Rau.
In che senso innocente?
Martini è un coreografo inusuale. Tutto il suo rigore ballettistico viene continuamente infranto da inciampi buffoneschi. Solo che nella sua apparente comicità, c’è un germe ironico per nulla casuale. Lo so, ora mi dirai che non si capisce, mi spiego meglio.
Onoratissimo.
In La camera du roy abbiamo sempre lo stesso schema: in alto lo schermo con la videoproiezione, in scena il corpo vivo del performer. Un po’ ballerino classico, un po’ rockstar alla Prince prima del concerto, Martini ci appare in camerino, anzi in «camera», tutto impettito, a mo’ di backstage; poi entra fisicamente in scena, solo che— il Re è nudo, o meglio, in mutande, e tra una pantomima e l’altra tenta maldestramente di rientrare nella sua «camera».
E perché sarebbe una parodia di Rau?
Perché a un tratto la «camera» (del Re) entrerà in scena, nella persona di Cindy Sechet, e i due prenderanno a interagire in maniera apparentemente sgangherata fra dimensione dal vivo e dimensione ripresa, tanto che il pubblico non saprà bene dove guardare e soprattutto cosa guardare, come se costantemente l’elemento «dal vivo» (teatro) venisse tradito dall’elemento «da camera» (cinema) e viceversa.
Viceversa?
Sì, perché a sua volta un corpo vivo e imprevedibile rischia di minare la precisione formale della ripresa.
E quale sarebbe il germe ironico per nulla casuale?
Questo scarto fra i due linguaggi che, per nulla eluso ma anzi evidenziato comicamente, mette in discussione l’abusata tendenza «contemporanea» alla camera in scena, portandola al parossismo, quasi dicesse: ebbene signori, è tutto finto, ma voi state ancora a guardare, sapreste dirmi cosa? Eccolo il germe ironico. Eccola la parodia innocente di Rau.
Ce l’hai proprio con Rau, eh?
Secondo me Five Easy Pieces era più potente e meno retorico. Ma torniamo a VIE.
Sempre lo scorso marzo, al Dadà di Castelfranco Emilia, è andato in scena Sei ovvero l’adattamento di Scimone/Sframeli dei «Sei»…
…personaggi in cerca d’autore di Pirandello, fin qua ci arrivo, grazie. Ma chi «Sei»?
Già. La questione è complessa, perché in questo caso abbiamo una doppia contorsione identitaria. Spiego subito. Da una parte c’è la materia dell’opera: sei personaggi irrompono in un teatro e chiedono di portare in vita il proprio dramma, salvo poi eccepire circa la rappresentazione. Dall’altra l’usura dell’opera e la sua irrecuperabile verginità.
Della serie: Pirandello la fanno tutti e mostra anche i segni del tempo?
Ti vedo in forma! Sì, è come l’Amleto, un po’ è un classico, un po’ un banco di prova, un po’ anche un titolo più facile da piazzare. Solo che ormai i Sei personaggi non sorprendono più tanto, e forse è meglio leggerli che rappresentarli.
Questo non lo so, ma venendo a Scimone/Sframeli?
Loro sicuramente tutte queste questioni se le sono poste: a partire da quel fondale rétro, bambinesco, alla Luzzati, coi palchetti disegnati da cui si sporgono i sei personaggi.
Il pubblico vede una platea o un palco?
«Chi “Sei”?» chiedevi prima tu. Ecco, questo è uno dei primi giochi.
Un altro, notevole, è quello più criticato allo spettacolo: che tutti gli attori – e sono dieci – recitino «alla Scimone/Sframeli», con quella cantilena un po’ sicula, bambinesca, quasi una filastrocca; come se la coppia messinese l’avesse fatto così, accidentalmente, per incuria o pigrizia. Non so se mi spiego.
Mica tanto. Ma ci provo. Tu mi staresti dicendo che: con quel fondale-platea vecchiotto, io-spettatore vedrei uno specchio posticcio e obsoleto di me-spettatore che nel 2019 sono a teatro. E quindi che: questo specchio deforme deciderebbe di irrompere sulla scena per dire a quel teatro che i suoi modi sono posticci e obsoleti e che dovrebbe piuttosto rappresentare me e i miei drammi che – anche se io nel 2019 non so bene chi o cosa sono – sicuramente sono cosa più viva di quella roba là, eccetera eccetera?
Esattamente!
Lo vedi che la fai troppo arzigogolata?!
Ti faccio un altro esempio. Rimaniamo in Emilia. Pititto e Maestri, in arte Lenz Fondazione, hanno debuttato a giugno con l’«auto sacramental» La vida es sueño, seconda tappa del progetto su Calderón de la Barca alla Pilotta di Parma.
Auto-cosa?
Auto sarebbe «atto» in spagnolo. Sacramental perché erano atti di carattere religioso, allegorici, rappresentati per il Corpus Domini; diventeranno celebri con Calderón che ne adotterà la forma – citando D’Amico – per «la trattazione di veri e propri problemi filosofico-teologici».
E qui il problema qual è?
La vita. Il mondo. Se ciò che l’uomo pensa e sente sia l’effettiva realtà o piuttosto una propria rappresentazione di essa.
Come noi?
Come noi. Questo bene o male è il materiale di partenza. Di qui Lenz lo moltiplicano e lo rifrangono.
Da una parte, nell’interazione con uno spazio come la Galleria Nazionale parmigiana, che non è né ridotta a scatola teatrale neutra né banalizzata a sfondo decorativo straordinario ma piuttosto espansa come camera onirica di artifici, in cui realtà e normalità seguono un’altra oggettività.
Puoi tradurre?
Se faccio Edipo alle poste, metti, la concretezza di quel luogo sbranerà a colpi di normalità il povero Edipo; se lo faccio a teatro invece il nostro Edipo se la caverà benone, fato a parte, senza intrusioni di quotidiana normalità; ma se lo faccio in un luogo terzo, come un polo museale, operando installativamente, sarà più difficile dire cosa è normale, cosa è credibile e cosa è finto.
Ok, mi torna, vai avanti.
Quindi, da una parte ci sono gli spazi, dall’altra un cast che unisce a professionisti e giovani ragazzi persone con disabilità psichiche e motorie. Perciò ecco che quando l’«Uomo» (e ricorda che qui non ci sono «personaggi» ma solo emanazioni di un’unica entità globale) afferma
Dal non essere io passo all’esser qui
ma non so chi sono adesso
e chi sarò,
o chi sono stato
il pubblico non assiste a un attore che interpreta la sua parte…
Quello che fa finta per finta?
…quello; bensì a qualcuno che fa delle allegorie di Calderón un mondo.
È molto poetico, ma secondo me la stai infiorettando un po’ per ragioni empatico-compassionevoli.
Non è una questione di «poverino, quanto è bravo per essere diverso». Quello è lo zoo ipocrita di certo teatro sociale. No, qui poco importa che il cosiddetto «attore sensibile» quei versi li sappia ri-citare, li smarrisca o li reinventi, perché in quel momento sta aprendo uno squarcio di visione che poco ha che fare con lo spettacolo inteso come prova e mostra di talento. Qui si fa finta per davvero. O per dirla con l’auto sacramental
d’essere un enigma mi offro,
perché non sono ciò che sembro
né sembro ciò che sono
Non lo so, è un caso troppo particolare. Ci devo pensare.
Provo a farti un ultimo esempio, poi ci rinuncio. Hai presente Liv Ferracchiati?
Questioni di genere?
Non proprio. Di identità, piuttosto, e di autobiografismo. Su Ferracchiati gravita un’ambiguità che cela una grande ipocrisia.
L’ambiguità sarebbe?
L’equazione di solito è:
1. L’artista tuderte non fa mistero della propria identità di genere;
2. Con la sua compagnia ha trattato l’identità di genere in diversi spettacoli.
Ergo…
Non fa che parlare di sé?
Bravo. Però siccome al momento il genere non è ancora un dato esclusivamente privato ma è ammantato di valenza pubblico-politica, ecco che quella malcelata accusa di parlare di sé si traduce in una velata accusa di disimpegno, egocentrico e autoreferenziale.
E l’ipocrisia invece qual è?
Che ciononostante Ferracchiati, sempre politicamente parlando, non può neanche essere ascritto a suprematista bianco maschilista ecc., pertanto gli ambienti militanti lo guardano con moderata diffidenza, mentre quelli laici con voyeuristica o opportunistica pruderie.
Ma scusa, chi se ne importa di chi è o chi non è! Piuttosto che fa?
Non dovrebbe importare eppure influisce. E il suo ultimo spettacolo probabilmente va letto anche tenendo in considerazione tutto questo intreccio di pubblico e privato.
Di che parla?
Commedia con schianto.Struttura di un fallimento tragico parla di un drammaturgo trentenne che si sente stretto fra aspirazioni artistiche e contingenze produttive, e che utilizza la scrittura come specchio: per riflettere e riflettersi.
Allora è vero che parla di sé!
Non è rilevante. Il punto è come lo fa. Bisogna guardare gli artifici non i (presunti) dati di realtà. Ciò che dovrebbe attirare la curiosità non è quanto sia vero ciò che porta in scena ma quanto sia finto, perché è proprio nella finzione che Ferracchiati dimostra la propria cifra autoriale. E il paradosso è che sembra operare questo ribaltamento non affermando sé ma togliendosi di torno. E osservando ciò che rimane in quel vuoto. E infestandolo.
E tu saresti l’unico che l’ha capito? Non solo arzigogolata ma pure arrogante stavolta.
Sintetizzo. Ciò che mi sembra ancora confuso è che la materia drammaturgica venga confusa e sovrapposta con il drammaturgo.
Quanto alla regia condivido certe critiche: costruzione scenica e recitazione sono ancora ingessate o, quanto meno, non riescono ad andare di pari passo con la sfida drammaturgica messa in campo, assestandosi su una messa in scena convenzionale. Contento?
Come ti offendi facile. Se ne sei convinto difendi il tuo punto di vista.
Ma no, il fatto è che a teatro ci si limita per lo più a recitare: a mandare a memoria un testo e a dargli delle sfumature psicologiche verosimili o credibili.
E questo è fare finta per finta o per davvero?
Finta per finta. Ti prendo due spettacoli diametralmente opposti che sono andati in scena in Toscana a maggio negli stessi giorni. Uno è Scene da Faust di Tiezzi al Fabbricone di Prato, l’altro Hedvig di Santoro/Tilli a Fabbrica Europa, Firenze.
Il primo è pieno di trovate scenotecniche munificenti, di affettazioni vocali, di pose drammatiche, mossette ironiche, ammiccamenti, duelli, danze: tutto tende a fare e a dare spettacolo di sé.
E che male ci sarebbe?
Non c’è niente di male. Quando si parla di teatro a questo si pensa, no? a una forma sofisticata di esibizionismo. Tutto familiare, tutto riconoscibile. Soddisfatti e confortati. In Hedvig invece…
No no no, aspetta un attimo, non te la cavi con questo facile sarcasmo. Ora spieghi meglio. Perché tu con questa storia del far finta per davvero o far finta per finta stai dicendo che c’è un teatro di serie a e uno di serie b.
Non è una questione di meglio o peggio. Si tratta solo di capire cos’è questa cosa che per convenzione chiamiamo teatro.
E per te quello di Scene da Faust non è teatro?
È una forma sclerotizzata di teatro, stanca. I momenti in cui squaderna dalla sua prevedibilità sono tre ma non hanno seguito: al principio quando si segnala che se l’attore, al centro di un cerchio di meditazione, leviterà lo spettacolo non sarà necessario; quando Faust e Mefistofele per poche battute si scambiano i ruoli; e quando a mo’ di set fotografico viene composto un tableau vivant.
Quindi il punto è che se c’è qualcosa di straniante è teatro altrimenti no?
No, il punto è che se disponi dei segni anche esteticamente affascinanti ma non li armonizzi, il risultato è stonato e manieristico. Detto altrimenti fai finta per finta.
E perché Santoro farebbe finta per davvero?
Perché in Hedvig – studio degli ultimi due atti dell’Anitra Selvatica di Ibsen – siamo di fronte a una scena disertata, inverosimile, che non richiede alcuna sospensione di incredulità.
E a cosa bisogna credere?
Questo è il punto. Ogni senso di azione, qui, di fine, di ragione psicologica non riesce a trovare una giustificazione formale. La postazione di regia è dichiaratamente al centro della scena. Da lì, Federica Santoro rimastica a mezza bocca tutti i personaggi del dramma ibseniano. Una voce anodina, la sua, de-caratterizzata: non cerca attenzioni, rumina, brancola, al pari del vecchio Ekdal che va a caccia nel suo bosco in soffitta o della giovane Hedvig che perde la vista. Realtà occluse e isolate. Proprio come i suoni esterni che arrivano come fossero già in ritardo.
Ma lo vedi che il punto è lo straniamento?
No, lo straniamento tutto al più è un mezzo, un artificio che non si traveste da verità. Qualcosa qui segue il «già toccato» e «già avvenuto» di Bene. I mobili ad esempio sono di cartone: quando l’attrice si siede cedono al peso e si sfondano, nella loro finzione cioè non possono trattenere alcuna verità fasulla. O credibilità. Tutto però pur accade: né verosimile né falso, ma veramente finto appunto, ed è un artificio che nel suo pur accadere genera un altro piano di realtà. Tanto che là dove pareva negato, il dramma si compie pienamente.
Poi dici che non sei arzigogolato. Abbi pazienza però, ma perché uno spettatore deve stare a farsi tutti questi ragionamenti?
Per la stessa ragione per cui quando uno è bambino chiede sempre «perché?» e quando cresce semplicemente si adegua. Non è una questione di «dover stare a ragionare», ma di accorgersi se vede o se vede per categorie, se incasella, e se quando qualcosa non rientra negli schemi si spaventa, e preferisce allontanarlo o ignorarlo.
Quindi chi fa finta per davvero ti invita a chiederti «perché?» e chi fa finta per finta no?
Diciamo di sì, però il teatro non è un giallo da risolvere o una pubblicità dai messaggi subliminali. Semplicemente chi fa finta per davvero non è in scena per esibirsi, veicolare messaggi, raccontare storie, sorprendere, commuovere o intrattenere. Non si appella a una forma convenzionale. Non sa spiegare esattamente cosa sia il teatro. E nel pur farlo, porta con sé il proprio perché e gli dà una forma.
E deve farlo per forza in maniera radicale?
Un gesto appare tanto più radicale quanto più è uniforme la società in cui viene compiuto.
Stai dicendo che in Italia il teatro contemporaneo è uniformato?
No, lo sto facendo dire a te.
Ascolto consigliato
Letture consigliate
• Claudio Morganti Teatro di regia è un ossimoro
• Massimo Marino, Rossella Menna Verità, finzione, confini, immaginazione (DoppioZero)
• Anna Bandettini Una finestra sul mondo: il successo del festival “Vie” (Repubblica)
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• Massimo Marino La regia, ovvero Le seduzioni del demone (DoppioZero)
• Matteo Brighenti Scene da Faust di Lombardi-Tiezzi: il sonno indiavolato della ragione (PAC)
In apertura: Asger Jorn L’avangarde se rend pas (1962). ©Donation Jorn, Silkeborg / Adagp, Paris. Ph. ©Georges Meguerditchian_Centre Pompidou, MNAM-CCI/Dist. RMN-GP
EL BRAMIDO DE DÜSSELDORF
testo e regia Sergio Blanco
perfomer Gustavo Saffores, Walter Rey e Soledad Frugone
video art Miguel Grompone
allestimento, costumi e luci Laura Leifert e Sebastián Marrero
design del suono Fernando Tato Castro
preparazione vocale Sara Sabah
preparazione al basso Nicolás Román
comunicazione e stampa Valeria Piana
immagine di copertina Rubén Lartigue
graphic design Augusto Giovanetti
fotografia Narí Aharonián
assistente alla regia Juan Martín Scabino
produzione e distribuzione Matilde López Espasandínes
VIE Festival, Teatro Storchi, Modena – 2 marzo 2019
THE REPETITION
Histoire(s) du théâtre (I)
ideazione, regia Milo Rau
testo Milo Rau e ensemble
performer Sara De Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen, Tom Adjibi, Fabian Leenders, Suzy Cocco
ricerca, drammaturgia Eva-Maria Bertschy
collaborazione alla drammaturgia Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
scenografia, costumi Anton Lukas Video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
disegno luci Jurgen Kolb
direttore tecnico Jens Baudisch
direzione di produzione Mascha Euchner-Martinez, Eva-Karen Tittmann
assistente alla direzione Carmen Hornbostel
assistente alla drammaturgia François Pacco
assistente alla scenografia Patty Eggerickx
coreografia lotta Cédric Cerbara
vocal coach Murielle Legrand
pubbliche relazioni Yven Augustin
attrezzature tecniche e studi del Théâtre National Wallonie-Bruxelles
produzione The International Institute Of Political Murder (Iipm), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles Supporto Capital Cultural Fund Berlin, Pro Helvetia, Ernst Göhner Stiftung
in collaborazione con Kunstenfestivaldesarts, NTgent, Théâtre Vidy-Lausanne, Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, Théâtre De Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival
con il supporto di ESACT Liège
RomaEuropa Festival, Teatro Vascello, Roma – 11 novembre 2018
LA CAMERA DU ROI
coreografia Andrea Costanzo Martini
direzione artistica Andrea Costanzo Martini – Cindy Séchet
luci Yoav Barel
drammaturgia Yael Biegon – Citron
costumi Idan Lederman
performer Andrea C. Martini / Cindy Sechet
video Cindy Sechet
musiche Binya Reches, J.S. Bach, Aphex Twins, Andrea Costanzo Martini, Britney Spears, Laura Pausini
ripetitore Melanie Barson
produttore Hila Gamily
coproduttori MARCHE TEATRO, Charleroi Danse, Associazione Cult. Van, Balletto Teatro di Torino/ Motori di Ricerca, Choreographisces Zentrum Heidelberg
con il supporto di Piemonte dal Vivo, Avshalom Pollack Dance Theater
ringraziamento speciali a Chiara Castellazzi promotrice del progetto Motori di Ricerca dal quale il lavoro ha preso inizio, Enzo Pezzella e Enrico Pitozzi
nell’ambito del Progetto CROSSING THE SEA / Programma Boarding Pass Plus del MIBAC
InTeatro Fesitval, Teatro della Luna, Polverigi (AN) – 20 giugno 2019
SEI
di Spiro Scimone
adattamento dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale, Giulia Weber, Bruno Ricci, Francesco Natoli, Mariasilvia Greco, Michelangelo Maria Zanghì, Miriam Russo, Zoe Pernici
regia Francesco Sframeli
scena Lino Fiorito
costumi Sandra Cardini
disegno luci Beatrice Ficalbi
musiche Roberto Pelosi
regista assistente Roberto Bonaventura
direttore di scena Santo Pinizzotto
assistente ai costumi Carolina Tonini
amministrazione Giovanni Scimone
produzione Compagnia Scimone Sframeli, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Stabile di Palermo, Théâtre Garonne-scène européenne Toulouse
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
foto Gianni Fiorito
VIE festival, Teatro Dadà, Castelfranco Emilia (MO) – 9 marzo 2019
LA VIDA ES SUEÑO
auto sacramental
da Calderón de la Barca
testo e imagoturgia Francesco Pititto
installazione, costumi e regia Maria Federica Maestri
musica Claudio Rocchetti
performer Sandra Soncini, Franck Berzieri, Paolo Maccini (Ensemble Lenz Fondazione)
Matteo Castellazzi, Lorenzo Davini, Martina Gismondi, Agata Pelosi, Margherita Picchi, Giada Vaccaro (Associazione Ars Canto)
Giuseppina Cattani, Maria Giardino, Elena Nunziata, Mirella Pongolini, Cesare Quintavalla, Valeria Spocci
progetto site-specific per il Complesso Monumentale della Pilotta di Parma
cura Elena Sorbi
organizzazione Ilaria Stocchi
assistente di produzione Loredana Scianna
ufficio stampa e comunicazione Michele Pascarella
cura tecnica Alice Scartapacchio
produzione Lenz Fondazione
Galleria Nazionale, Complesso Monumentale della Pilotta, Parma – 12 giugno 2019
COMMEDIA CON SCHIANTO. STRUTTURA DI UN FALLIMENTO TRAGICO
testo e regia Liv Ferracchiati
con Caroline Baglioni • Michele Balducci • Elisa Gabrielli Silvio Impegnoso • Ludovico Röhl • Alice Torriani
voce Aristofane Giorgio Crisafi
dramaturg Greta Cappelletti
assistente alla regia Anna Zanetti
costumi Laura Dondi
scene e ideazione maschere Lucia Menegazzo
realizzazione maschere Carlo Dalla Costa
ideazione pera-specchio Giacomo Agnifili
scenografa realizzatrice Tamara Milenkovic
luci Emiliano Austeri
suono Giacomo Agnifili
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con la compagnia The Baby Walk
Teatro Morlacchi, Perugia – 23 aprile 2019
SCENE DA FAUST
di Johann Wolfgang Goethe
versione italiana di Fabrizio Sinisi
regia e drammaturgia di Federico Tiezzi
con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Marco Foschi, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Leda Kreider, Sandro Lombardi, Luca Tanganelli
scene e costumi di Gregorio Zurla
luci di Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
coreografo Thierry Thieû Niang
canto Francesca Della Monica
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi
in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese
Teatro Fabbricone, Prato – 17 maggio 2019
HEDVIG
studio di e con Federica Santoro e Luca Tilli
oggetti di scena Marina Schindler
dipinto di Ettore Frani
PARC Performing Arts Research Centre, Firenze – 16 maggio 2019