Si fa presto a dire alienazione, a liquidare un pezzo di umanità in una patologia sociale alimentata dalla società stessa; ma gli uomini, poi, quei tanti singoli individui ripiegati su sé stessi, come stanno? cosa ne è di loro?
Susanna è una giovane donna alquanto abitudinaria: ogni mattina si alza presto, legge il giornale da capo a fondo, va a lavoro in un negozio di elettrodomestici, e così il giorno appresso e quello dopo ancora. Vive da sola, in un sobborgo imprecisato, altrettanto regolare, monotono, normale, non fosse per la presenza di un pachiderma, adottato dalla città in seguito alla chiusura dello zoo. Sennonché un giorno, sfogliando il giornale, Susanna scopre che l’elefante è scomparso e tutto a un tratto, in lei, qualcosa si spezza.
Qualsiasi cosa mai – liberamente ispirato al racconto di Murakami L’elefante scomparso (’89) – scandaglia i silenzi degli uomini soli, le ossessioni e le angosce di chi ha visto il proprio volto nascosto e non ha saputo sostenerne lo sguardo. Per la protagonista, infatti, quell’elefante rappresenta una variabile impazzita ma confortante dell’ordine universale, una proiezione del proprio desiderio, taciuto, di caos; venuta a mancare la quale, l’individuo si ritrova a invertire qualunque processo evolutivo – di crescita – per avviarsi verso un impercettibile eppure inarrestabile moto di dispersione: che differenza c’è, in fondo, fra sparire e perdersi?
Nello spettacolo di Fiora Blasi (regista, autrice, interprete), dunque, la dimensione del vuoto, dell’incomunicabile, dello strappo emotivo si dilata fino a sospendere qualunque azione: un immobilismo che si fa sinonimo di una vita fantasma. Tutta la delicata fragilità restituita dall’interpretazione dell’attrice, tuttavia, non trova una risposta adeguata sulla scena, dove la presenza musicale e, maldestramente, attoriale di Luca Venitucci (nei panni di un personaggio – pura “funzione” dialogante – che rispetto al racconto originale prende forse troppo spazio) sembra frenare il dispiegamento di quel dolore latente, mischiando così ironia e dramma in una soluzione dalla dubbia efficacia.
Forse maggiore spazio alla solitudine, al vuoto, al silenzio (sviluppata in parte nelle video proiezioni di Antonio Capocasale e nelle luci di Daria Grispino) avrebbe restituito quella sensazione di smarrimento interiore che, oggigiorno sempre più, una generazione di quasi adulti prova nei confronti di sé stessa: abbandonata com’è a un futuro che si replica grigio, per inerzia, senza margine di imprevisti. Fosse anche un vecchio elefante in città.
Ascolto consigliato
Rialto Santambrogio, Roma – 12 dicembre 2014