Porcile, o il fango della borghesia
Pasolini secondo Binasco al Metastasio
Attaccare con una ferocia poetica i meccanismi della borghesia è sempre stata una delle ossessioni di Pasolini. Ce lo dimostra la sua celebre opera teatrale del 1966, Porcile, da lui stesso portata al cinema due anni dopo e recentemente messa in scena da Valerio Binasco.
Siamo in Germania, nel 1967. Julian Klotz (Francesco Borchi) è un venticinquenne che, sempre chiuso nella tenuta borghese di famiglia, trova nella propria confusione e in un autocompiacimento nevrotico degli strumenti con cui isolarsi da una madre isterica (Valentina Banci), un padre severo e ricco industriale (Mauro Malinverno), e da Ida (Elisa Cecilia Langone), diciassettenne innamorata del ragazzo, pronta a partire per Berlino, dove parteciperà a una marcia per la pace. L’arrivo di Herdhitze (Fulvio Cauteruccio), ex criminale nazista e vecchio compagno di studi del padre di Julian, e una passione malata che il giovane coltiva in segreto getteranno sulla famiglia una luce ancora più torbida.
Ci troviamo dunque di fronte a una serie di figure squallidamente grottesche, che Binasco tratteggia con abilità e assoluta precisione, a partire, ovviamente, da quella del protagonista: Julian, sovrastato da uno sfondo su cui sono dipinte alcune arcate della villa che si affacciano sul verde (scene Lorenzo Banci), ha da subito l’aria inebetita di chi stia inutilmente attendendo l’arrivo della propria identità, nella speranza di poterla almeno vedere passare per qualche istante e capire così come sia fatta. È infatti proprio egli stesso, tra un momento e l’altro della trappola in cui trascorre i propri giorni, ad affermare significativamente poco dopo l’inizio «Io non so chi sono».
Concentrandosi quindi in maniera maniacalmente realistica sulle presenze degli attori, il regista rinuncia a quel simbolismo e senso di straniamento di cui, invece, Pasolini fa ampio uso sia nel testo che nella pellicola. Tuttavia, grazie anche alla potenza dei dialoghi qui modificati in minima parte, è quasi impossibile non respirare un’aria di metafora: il segreto accoppiarsi del giovane con i maiali del porcile della tenuta evoca il suo sconsiderato trovarsi fra le braccia del Male della propria famiglia, il suo mettersi comodo in una spirale di autodistruzione, il quotidiano sporcarsi nel fango del proprio disagio. Non a caso, a un certo punto il padre si domanda se il figlio lo immagini proprio come uno di quei maiali che negli anni Venti il maestro della Nuova Oggettività Grosz dipingeva per descrivere le bassezze della borghesia tedesca (cfr. immagine in apertura).
Ma in realtà quasi tutti i corpi che abitano questo spazio non possono fare a meno di sfoggiare le proprie malattie, di mettersi in mostra come sagome che, forse senza accorgersene, sguazzano sul fondo più lurido del loro benessere economico, si aggirano in una ricchezza di cui sono inevitabilmente schiave. E allora scopriamo che Julian, alla fine, è solo uno dei tanti disadattati in questo porcile umano.
Ascolto consigliato
Teatro Metastasio, Prato – 12 novembre 2015
In apertura: George Grosz Circe (1927), dettaglio ©MoMA, New York