Poca arte tanta retorica
La fine dell'estate con Short Theatre e Opera Prima
Ma l’arte che fine ha fatto? Va bene che tutti devono avere una possibilità, che bisogna sostenere i settori culturali, che i compromessi vanno fatti, va bene che si deve pur campare, che oggi rinunci domani guadagni, va bene che è colpa dell’algoritmo, del sistema, di luca di su, di luca di giù, di mammacicciomitocca e di toccamiciccio, va bene, va bene tutto—ma mentre si continua a rimbiancare le macerie, l’arte che fine fa?
Nei dieci giorni di Short Theatre, agli ex-macelli romani della Pelanda, si sono avvicendati artisti di diversa natura con-vocati da Fabrizio Arcuri e Francesca Corona sotto la lente del motto Provocare realtà (qui la presentazione). La riflessione proposta parte dall’assunto per cui esiste una sorta di status quo che necessita una messa in discussione; ma se – come evidenzia Arcuri – «la realtà è sempre e comunque la percezione del reale» (dunque il racconto che ci si fa o cui si decide di credere): cos’è esattamente che va messo in discussione? Il racconto, il narratore, l’ascoltatore o il raccontare stesso?
Come abbiamo già riscontrato in altri festival estivi (Il teatro parla di noi, ma noi chi? e Derive e approdi di un teatro al largo), questa vaghezza prospettica porta ultimamente a concentrare lo sguardo di artisti e pubblico non tanto sullo scavo interiore (perché guardo come guardo?) ma su una data visione socio-politica (il racconto dominante), caratterizzata da crescenti spinte reazionarie che tendono a un’inquietante reductio ad unum da una parte, e dalla ricchezza e la bellezza delle diversità che l’umano e un certo tipo di arte vanno difendendo dall’altra.
Il racconto non è che sia infondato ma, ridotto così ai minimi termini, rischia spesso di confermare la propria assolutezza per urgenza morale. Tradotto: siccome non mi piace il mondo in cui vivo, lo dico in tutti modi possibili (cioè insisto a vederlo cosâb3