Plexus – Aurélien Bory (for) Kaori Ito
Quante forme ha lo spazio? Tutte, perché tutte le contiene, e nessuna, perché non può essere concepito che per sottrazione. L’occhio lo attraversa, lo intuisce, ma non lo coglie; e così non può che tentare di ricostruirlo a ritroso. Allo stesso modo fa l’uomo con la vita: un’ impalpabile e sconfinata porzione di spazio che tenta di abitare e conoscere col tempo.
Non possiamo fare a meno di partire da queste coordinate minime di fisica esistenziale per parlare di Plexus. La genesi dello spettacolo è interessante, ma in realtà non è necessario conoscere la storia di Aurélien Bory (ideatore, scenografo e regista) né quella di Kaori Ito (danzatrice e coreografa giapponese, alla quale la performance è dedicata e affidata) per penetrare questa preziosa ibridazione di arti performative. Basta focalizzare l’attenzione sulla geografia nascosta della nostra quotidianità.
Si comincia da una nascita, quando tutto è oscuro ma possibile. Kaori Ito è in proscenio, spalle a un grande telo nero, che raccoglie fremiti e respiri e li lascia vibrare sulla superficie liquida (Sylvie Marcucci). Un microfono strofinato sul corpo ci restituisce il senso del tatto (Stéphane Ley): l’individuo prende coscienza di sé e può uscire nel mondo. È così che la danzatrice retrocede in profondità trascinando con sé il telo e scavando nel buio un solco uterino. La scena si svela e ci mostra il mondo senza misteri di spazio.
Migliaia di fili di acciaio pendono dall’alto unendo metaforicamente cielo e terra in un’enorme struttura cubica senza pareti (Pierre Gosselin), dove la forma in realtà non esiste, ma lo sguardo, perso in quella cascata di cavi, non può fare a meno di costruirla. Spazio visibile, per l’appunto. Talmente fitto che irretisce, stanca i movimenti: l’individuo si aggira fragile, costretto a percorsi labirintici che lo schiacciano a terra; ma dalla fatica si acquista consapevolezza del proprio esistere al mondo e così d’improvviso quella prigione di fili comincia a oscillare e a stimolare l’uomo a una diversa percezione di sé nello spazio. Ecco allora che la danzatrice giapponese si eleva in una verticalità inattesa, dove l’ombra trascende l’appiattimento e, in un’inversione di luci (Arno Veyrat), si trasforma nella proiezione di un’illuminazione.
Lo spettacolo si chiuderà con una danza liquida in cui le innumerevoli funi, pur sempre concretissime, perderanno ogni consistenza materiale per fondersi infine in unico fascio – plesso – di nervi con quel puro spirito che volteggia tra i fili senza più ostacoli.
Come inchiostro vibrante, dunque, la parabola tutta umana di Plexus ci mostra l’invisibile della nostra realtà e traccia così – senza la retorica di tanti apocalittici teatranti contemporanei – il percorso che può trasformarci da marionette in tessitori del nostro destino.
Se non è questo teatro di vita…
Teatro Brancaccio, Roma – 28 novembre 2014
In apertura: Foto di ©Mario Del Curto