Pietà – Kim Ki-duk
Il concorso veneziano si arricchisce della presenza di uno dei nomi più importanti di questa sessantanovesima edizione. Torna infatti al Lido Kim Ki-duk. Il maestro coreano, autore di film pluripremiati ai festival e osannati dalla critica mondiale, aveva raccontato l’anno scorso a Cannes in Arirang la sua lunga fase di impasse creativa. Pietà è invece la storia di un giovane che si guadagna da vivere come esattore di uno strozzino, si aggira per i bassifondi di una città senza nome e storpia i poveracci che non riescono a stare dietro agli interessi. Troverà la forza di essere migliore grazie al ritorno di una madre mai davvero conosciuta ma, dopo aver seminato così tanto odio, è destinato a finire travolto da una spirale di violenza, dovere, vendetta, senso di colpa, onore.
Profondo e disturbante, Pietà, citazione palese del capolavoro michelangiolesco, è un film che non lascia in pace lo spettatore e lo mette di fronte a un apologo morale profondamente altro rispetto alle abitudini occidentali. Non è facile infatti entrare davvero in sintonia con l’universo etico di questo film per un occhio abituato ai modi europei e americani di trattare queste tematiche. L’eccezionalità non sta infatti nello snodarsi di una trama complessa e sfaccettata, dove lo spettatore finisce imprigionato in un labirinto di identità allo specchio, quanto nel modo di pensare e di risolvere i concetti di vendetta e onore, il senso della famiglia e il giudizio, di condanna assoluta, sul ruolo assunto dal denaro nella contemporaneità.
Fondamentale per non lasciare lo spettatore imprigionato dai nodi della sceneggiatura è il lavoro della regia. E Kim Ki-duk mostra tutte le sue doti allestendo una messa in scena sontuosa, con dosaggio sapiente del montaggio e della macchina a mano, permettendosi lussi creativi di estrema originalità. Il ritmo è disteso senza essere lento, procede per strappi violenti grazie a un ciclo regolare basato sull’alternanza di situazioni di stasi perfettamente descritte e catastrofiche esplosioni in cui i temi portante del film si fanno carne e rappresentazione davanti allo spettatore.
Di altissimo livello è anche la fotografia che rende bene lo squallore dell’ambientazione, con interni bui e perfettamente scolpiti ed esterni grigi perennemente gravati da una luce piatta: il sole non splende sulle sciagure umane per Kim Ki-duk. Bravissimi anche tutti gli attori alla cui prova potrebbe forse togliere qualcosa il futuro doppiaggio.