Piazza Vittorio: uno sguardo in continuo mutamento
Tra ricerca etnografica e approccio antropologico, Abel Ferrara si immerge nel quartiere multietnico della capitale
Interessato fin dagli esordi, negli anni Settanta, ad esplorare luoghi e personaggi ai margini della società, tra religione, speranza, redenzione, violenza urbana, sessuofobia e crimini efferati, il cinema controverso, molte volte eccessivo, di Abel Ferrara, popolato da gangster alcolizzati e addicted di ogni tipo, ha da sempre provocato e diviso gli spettatori. Partendo dal suo vissuto, il cineasta, nato e cresciuto nel Bronx da genitori immigrati dalla provincia di Salerno, si è immerso specialmente nel substrato culturale newyorkese, gettando luce su angoli e spazi degradati ai limiti del racconto.
Da tre anni circa il regista vive a Roma, con la moglie Cristina, conosciuta proprio nella capitale, e la figlia neonata, nei pressi di Colle Oppio a pochi metri da Piazza Vittorio Emanuele II, la più grande della città, cuore pulsante del quartiere Esquilino, simbolo della multietnicità romana dagli anni Settanta. Analogamente a Napoli Napoli Napoli (2009) film che presenta diversi aspetti della città attraverso le storie di vita delle persone intervistate, mostrando vari luoghi tra cui il carcere femminile di Pozzuoli, i vicoli dei Quartieri Spagnoli e le Vele di Scampia, con Piazza Vittorio (2017) Ferrara cerca di raccontare una realtà ai margini, distante da quella in cui si è formato, ma che sta, piano piano, iniziando a conoscere e vivere. Girato in cinque giorni (a cui sono stati aggiunti materiali raccolti da Ferrara stesso con il proprio smartphone) con il montatore Fabio Nunziata, accompagnati da una troupe di pochi elementi, il documentario propone attimi di quotidianità e di incontro nella piazza e nel quartiere. Piazza Vittorio rappresenta un vero e proprio microcosmo all’interno della città, caratterizzata da un insieme di sfumature, di voci, di popoli, etnie e culture che la rendono unica. Le persone che raccontano la propria esperienza davanti alla camera provengono da ogni angolo del mondo (nordafricani, mediorientali, sudamericani, esteuropei, cinesi), oltre che da ogni zona d’Italia (lucani, siciliani, campani, calabresi così come veneti e friulani).
Più che intenzioni e propositi didattico/informativi sul tema dell’immigrazione, Ferrara scende in campo prima persona, al fine di instaurare un dialogo con le persone, interagendo e cercando un punto di contatto. Chiara fin da subito, ed esplicata più volte dal regista stesso nel corso del film, la propria condizione di immigrato (“american immigrant”), così come della moglie di origini moldave, venuta a Roma con la madre e la sorella. Intimamente coinvolto, si confronta con le persone, residenti italiani e non, clochard, artisti di strada, gente che sembra vivere la giornata di espedienti, commercianti, curioso di conoscere le molteplici storie di vita che lo circondano. Abbattendo qualunque gerarchia, distacco e “metaforica” linea di frontiera, il regista entra all’interno del quadro ed empatizza con chi esterna e manifesta le proprie difficoltà e i propri scetticismi “I’m a desperado man, I need a fucking job too”, dal momento che Ferrara viene talvolta scambiato per un giornalista intento a realizzare un lavoro d’inchiesta sull’immigrazione.
Il film raccoglie i racconti di un insieme di anime perse e smarrite, che ritornano e si radunano nella Piazza, che da “giardino dell’Eden” si è rivelata un territorio di fatica e sfruttamento per chi non ha la “grana”, come apostrofa il brano Do Re Mi di Woody Guthrie, nonostante questo si riferisca a chi sognava, durante la grande Depressione, di trasferirsi dagli stati del Sud in California per cercare fortuna. Piazza Vittorio, inoltre, vede anche la partecipazione di due colleghi illustri come Willem Defoe, naturalizzato romano dopo aver sposato la regista italiana Giada Colagrande, conosciuta durante una pausa delle riprese de Le avventure acquatiche di Steve Zizou (2004), proprio mentre smarrito si aggirava nel quartiere, dove i due ora hanno un appartamento, e Matteo Garrone, che dai Parioli si è trasferito nel rione Esquilino a fine anni Novanta, dopo avervi ambientato il suo film Estate Romana (2000).
Dalle testimonianze orali emerge una realtà variegata, luogo di ispirazione e laboratorio creativo in cui la convivenza sembra possibile ma ancora problematica. L’atteggiamento di alcuni residenti italiani, specialmente, appare ostile nei confronti della comunità di immigrati, come si evince in apertura del film in cui una donna inveisce contro un ragazzo africano reo di ostacolarle la passeggiata in Piazza. Ad aver generato “scandalo”, o comunque una certa diffidenza nei confronti del film, è stata, tuttavia, la tanto incriminata lunga intervista agli esponenti di Casa Pound, considerati da alcuni come un bieco “spot” al partito xenofobo. Presumibile che Ferrara, in realtà, non volesse fare un omaggio, quanto riportare una voce presente all’interno del territorio simbolo di una profonda e contraddittoria realtà, dal momento che i militanti fascisti, citando Marx, si professano difensori degli oppressi e dei più deboli, nonostante si riferiscano chiaramente esclusivamente ai propri connazionali.
Nonostante il film non mostri unicamente espliciti segnali di razzismo nei confronti dei migranti, ma anche di ospitalità e convivenza, un quesito che lo spettatore si può porre riguarda il fatto che Ferrara tenga comunque fuori alcune realtà importanti nella vita del quartiere che promuovono iniziative culturali atte a coinvolgere la comunità dei residenti italiani e quella degli immigrati, come l’Associazione Apollo 11 o il centro di aggregazione giovanile MateMù. Nonostante possa sembrare un lavoro frammentario ed incompleto, o meglio in continuo mutamento ed evoluzione come la realtà illustrata, il film suggerisce e stimola interessanti quesiti e spunti di riflessioni concernenti il concetto, sempre più labile, di appartenenza, posizioni e costruzioni identitarie.