Personal Shopper
Assayas, Kristen Stewart, un mondo di schermi e fantasmi
Presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il premio per la Miglio regia, ex aequo con Un padre, una figlia di Cristian Mungiu, Personal Shopper di Olivier Assayas immerge lo spettatore in una dimensione metafisica e spirituale, mettendo in scena la mancanza, l’attesa e il desiderio nella nostra società crossmediale. Come una naturale evoluzione rispetto al suo lavoro precedente Sils Maria (2014) – nonostante registri diversi entrambi i film prendono in esame l’ossessione per la celebrità, il divismo, ma anche il soprannaturale e l’inconscio – Assayas pone al centro della scena, trasformando in protagonista, non una grande attrice o una celebre modella, ma la sua controparte.
Kristen Stewart, che nel film precedente interpretava l’assistente di Maria (Juliette Binoche), un’attrice non più giovanissima ormai in declino che si vede scavalcata da nuova star in ascesa, adesso è Maureen, personal shopper di Kyra, modella di fama internazionale, per la quale cura principalmente il guardaroba, scegliendo vestiti e gioielli adatti a determinate occasioni, con un budget a disposizione praticamente illimitato. Un lavoro vuoto, superficiale, possibile solo in una società immateriale come la nostra, con la connotazione di stardom che ne deriva, che Maureen stessa detesta e vorrebbe lasciare. “Non hai niente di meglio da fare che vestire Kyra?” le viene chiesto dall’amante della modella stessa. “Sì” risponde lei, “aspettare”. Maureen infatti ha da pochi mesi perso il fratello gemello Lewis a seguito di un arresto cardiaco dovuto ad una disfunzione genetica, da cui anche lei è affetta.
È in attesa di un segnale, una manifestazione, un richiamo che lo stesso Lewis le aveva promesso quando era ancora in vita. La ragazza decide di trascorrere del tempo nella casa in cui abitava il fratello, immergendosi nello spazio, interagendo con gli oggetti, portatori di una memoria personale, medium tra passato e presente, come già si evinceva in L’heure d’été (2008), anche se qui hanno una configurazione minacciosa e spaventosa. Maureen, sensitiva come anche Lewis, cerca di stabilire un contatto con l’aldilà, con l’intento di poter così ri-elaborare e superare il lutto, per poi andare avanti con la propria vita.
Il mondo vuoto, solitario, superficiale e materialista legato alla professione di Maureen collide con l’universo trascendentale, astratto, ipnotico e metafisico dell’aldilà, dell’ignoto e dell’invisibile. È su questo piano, su questa contrapposizione di termini che viene effettuata l’interrogazione di Assayas sulla percezione del mondo che ci circonda. La ri-definizione dell’esistenza umana, e dei suoi rapporti interpersonali, viene delineata dall’utilizzo dei media e dalla dipendenza con i sistemi di comunicazione. Nell’era crossmediale la tecnologia cambia e trasforma l’individuo, la sua percezione del mondo così come quella di sé. Lewis sembrerebbe manifestarsi grazie alla de-materializzazione della comunicazione dovuta alle nuove tecnologie, comunicazione in absentia, di per sé un dialogo fra assenze, fantasmi.
Maureen riceve infatti dei messaggi sul proprio iPhone da uno sconosciuto, ma non sappiamo se si tratti del fratello morto oppure di un pervertito o un assassino. Servendosi di stilemi che caratterizzano generi diversi, dalla ghost-story, di chiara matrice orientale (grande passione del regista), al J-horror, e il cinema in particolar modo di Kiyoshi Kurosawa, ad esempio Kairo (2001) ma anche Daguerreotype (2016), Assayas inserisce lo smartphone come dispositivo narrativo, ricreando atmosfere da thriller con una suspense neohitchcockiana. Nonostante il focus principale non sia l’investigazione dell’ontologia dell’immagine digitale, il film, girato in pellicola, allarga la riflessione investendo anche il linguaggio cinematografico, mostrando la propria grana, consistenza e materialità fin dalla prima sequenza. Rendere reale l’immateriale. Gli spiriti che infestano la casa, realizzati con effetti CGI, sembrano infatti uscire dalle fotografie spiritualiste di fine Ottocento, dove venivano utilizzati rudimentali effetti di sovrapposizione e sovraesposizione per creare presenze fantasmatiche.
Personal Shopper è anche un film sull’impermanenza e la trasformazione del corpo, ma anche la sua sparizione, come materializzazione di un’energia spirituale. Il corpo di Kristen Stewart viene spogliato (letteralmente) della sua connotazione divistica, della sua figura di star hollywoodiana, conferendo una forma di libertà di espressione all’attrice nel vestire i panni del cinema “autoriale”. Un corpo magnetico che si destreggia coreograficamente rendendo materiale un immaginario, e il desiderio che ne deriva, della protagonista così come dello spettatore. Desiderio veicolato dai vestiti di Kyra, oggetto proibito (sennò non ci sarebbe il desiderio) con i quali il corpo di Maureen si trasforma acquisendo un potere iconico, aspetto affrontato anche in Irma Vep (1996). Un film che riflette sull’esperienza del reale, e del sé, generando una contrapposizione tra visibile e invisibile, realtà visiva e realtà percettiva, determinata dalla nostra immaginazione. Dare forma e materia ai fantasmi, all’essenziale invisibile agli occhi che risiede fuoricampo.