È già troppo tardi: la voce delle rovine
A Modena l'VIII edizione di Periferico Festival
È già troppo tardi. Hai capito? È già troppo tardi!
Modena. Ovest. Un paio di chilometri dal centro. Siamo per strada, sotto la pioggia, tra asfalto e alberi, un reticolo sfilacciato che qui chiamano periferia. Camminiamo. Soltanto un piccolo iPod, fissato sulla giacca, e una voce, nelle orecchie, ad accompagnarci in questo cimitero degli elefanti. Ci guardiamo attorno: poche macchine, poche facce in giro, e non è il maltempo. È come se l’inerzia del quartiere avesse riassorbito la storia. Torniamo indietro.
Era il 1953. Debiti di guerra, disoccupazione, sfruttamento, scioperi, scontri, morti. Poi l’idea. Riscattare i terreni agricoli, lottizzarli e venderli agli operai specializzati, a costi contenuti. Nasce il Villaggio Artigiano: una comunità di operai-imprenditori che vivono e lavorano assieme. Casa e bottega, e per i meno rossi anche una chiesa. Con il sindaco Corassori e l’architetto Pucci si realizza il cosiddetto comunismo imprenditoriale emiliano, un modello virtuoso che diventerà storia e prospererà per oltre trent’anni. Ma poi il mercato cambia, si insinuano nuovi tarli, il benessere comincia a rodere i legami, poco a poco l’associazionismo si smaglia. La crisi del 2008 darà soltanto il colpo di grazia.
Spariranno certe cose, il mondo si evolve facendo scomparire certe cose che non interessano più.
Attraversiamo queste strade sessant’anni dopo, in compagnia di una voce quella netta e toccante di Beatrice Schiros che è tante voci: non ci racconta, no, ci porta ad ascoltare l’eco della storia, ad osservare, a prenderci il tempo per sentire ciò che manca. Stiamo parlando di Lettere anonime per un camminatore, prima tappa e splendida summa della nuova, ottava, edizione di Periferico: un festival nomade ideato e organizzato dall’Ass. Cult. Amigdala che ogni anno abita artisticamente luoghi marginali della città. Si tratta, dicevamo, di un percorso itinerante solitario (testi di G. Dalla Barba, composizione sonora di M. Clarelli) che in qualche modo traccia un’epigrafe di ciò che sarà questa tre-giorni, ma la incide secondo la sensibilità tipica del teatro, cioè attraverso l’effimero.
Perché qui, chiaramente, sorge la prima importante domanda: come può intervenire una manifestazione artistica in un contesto sociale? La risposta come emerge dall’incontro con la docente d’arte C. Guida e l’urbanista C. Calvaresi è che non può, o per lo meno non dovrebbe, pena snaturarsi. L’arte respira la politica e in seconda battuta la influenza. Agisce, non interviene. Tutto sta, semmai, a vedere se esiste ancora una polis. E questa forse è la grande domanda dei nostri giorni.
Come suggerisce il sottotitolo Futuro antenato, Periferico ci porta ad affrontare questa domanda attraverso incontri, escursioni, performance, installazioni, spettacoli da un’interessante prospettiva, quelle delle rovine. Le rovine, infatti, al contrario dei rifiuti, sono tracce di un passato che per quanto ormai obsoleto continua a emanare una radiazione viva nel presente. Se ce ne lasciamo investire, la rovina si innesterà nella nostra storia personale e diventerà eredità: un’eredità consapevole chiamata cultura. Se invece quella radiazione si disperde starà alla sensibilità del singolo riattivarla. Come disse R. Castellucci lo scorso novembre all’Argentina (Conversazioni sulle Rovine):
Attorno a ciò che manca si può costruire una creazione. L’arte occidentale nasce dallo scacco della separazione, da ciò che manca, da ciò che diciamo, da noi stessi.
E cos’è che manca nel Villaggio Artigiano? Il Villaggio Artigiano stesso. Ma i tempi sono cambiati, e gli ultimi eredi, le terze generazioni (oggi ultracinquantantenni), lo sanno bene: quando li incontriamo nelle esplorazioni di quartiere condotte da Federica Rocchi curatrice del festival, che questi luoghi li ha attraversati e scandagliati per cinque mesi , ci parlano soltanto del passato, il presente per loro è una morte annunciata, sono perfettamente consapevoli di essere gli epigoni di una storia che non può continuare. Nessuno accenna al futuro.
Nella cultura occidentale, in effetti, il concetto di fine reca in sé sempre un che di catastrofico e luttuoso: nonostante l’innegabile comun denominatore del Cristianesimo, la circolarità di morte e resurrezione ha sempre faticato a entrare nell’immaginario nostrano; la morte per noi va impedita, rinnegata, ritardata o quand’ormai è ineluttabile taciuta: parlarne poco e con la massima discrezione. Invece la rovina è lì a ricordarci che la morte non è la fine è una fine. Che morire è naturale. Che ciò che è morto non si dissolve ma si irradia nella coscienza altrui.
L’arte, allora, più che intervenire socialmente o politicamente, può agire per l’appunto da catalizzatore di dubbi. Heiner Goebbels, artista eclettico di fama internazionale, illustrando la sua azione nel paesaggio industriale dell’alta Renania-Westfalia durante la direzione artistica della Ruhrtriennal, lo ribadisce: l’arte deve riaccendere i luoghi, perché questi tornino a “parlare”, e non servirsene solo come suggestiva scenografia. L’artista, insomma, deve interrogare sé stesso rispetto alla rovina, trasporre tali interrogativi nel codice espressivo che gli è proprio, e manifestandoli innescare nello “spettatore” domande universali che potranno essere coltivate e indagate da quest’ultimo a sua volta.
Accade così, a Periferico, con l’abitazione coreografica di M. Mualem e G. de Filippis, Stones in motion, cinque corpi che creano e rompono legami in continuazione mentre invadono lo spazio stretto dell’Ovest Lab, come una materia fluida che si gonfia e si contrae e si spezza e si espande in ogni direzione; o la performance artigianale dei portoghesi M. Lança e J. Calixto, Morning Sun, che legno, chiodi e compressore alla mano compongono dalla materia inerte dimensioni, oggetti, prospettive, rotte e equilibri precari da infrangere e ricostruire; o ancora l’invasione delle macchine aliene di A. Panzuto, creature fatte di scarti riassemblati che si aggirano per un paesaggio deserto, probabilmente la Terra stessa, in cui l’uomo ormai ha fallito; o le apparizione inattese degli sloveni K. Lorenci e I. Mijačević come vita improvvisa che riaffiora dal silenzio dei luoghi abbandonati in cerca di contatto, o la massa cieca del Mobile vulgus del Collettivo Jennifer rosa in cui emergere e scomparire diventano le uniche pulsioni dell’individuo nella società contemporanea.
Non sempre però c’è quella che Maurizio Lupinelli, riprendendo Artaud, chiama la ferita: quello squarcio irrisolto da cui sgorga il male, quello strappo, quel dolore che genera l’inquietudine della creazione. E difatti è su una ferita che il fondatore di Nerval decide di portare in scena la sua azione drammatica: sulla massicciata che abbraccia completamente il Villaggio Artigiano e al contempo, oggi, lo isola; si tratta di una lunga linea di pietre dove fino a poco fa correva la linea ferroviaria che da Modena portava a Reggio, ma ormai non sono rimasti neanche più i binari, e questo muro frantumato non sutura, è una nuova rovina su cui interrogarsi.
Ci torneremo sempre itineranti, sempre in cuffia, infine, con il Walkabout di Carlo Infante che in esplorazione notturna conduce all’attraversamento dialogato di quegli stessi luoghi, in cui i dubbi di uno, le sue risposte, diventano l’ascolto di tutti. E il cerchio in qualche modo si chiude dando l’abbrivio per un nuovo giro.
Con Periferico riscopriamo dunque il senso del rito, quella dimensione in cui come spiega lo scrittore ed esperto di teologia A. Ponso ogni singolo elemento, nessuno più di un altro, diventa tassello fondamentale dell’esperienza.
Cosa rimane allora? Il seme, che è la traccia più sincera che l’arte possa lasciare.
Mentre camminiamo via ha smesso di piovere, ci guardiamo nuovamente attorno, con occhi diversi, alziamo il capo e d’improvviso risuonano quelle parole:
Tutto il cielo, tutta la terra, tutto il linguaggio non potrebbero esister nella costrizione di un senso.
Bisogna che la gente cambi, che capisca gli alberi.
Ascolto consigliato
Villaggio Artigiano, Modena – 27-29 maggio 2016