Orfane di capisaldi
Le ragazze d'Europa dopo il crollo del muro ne 'La parola padre' di Vacis
L’etimologia della parola padre è strettamente connessa al termine pane. Il legame tra i due termini si trova in una radice sanscrita pan, legata al concetto di protezione e nutrizione. Da qui nasce il pati latino che significa antenato e da cui si forma la parola Pater. Il padre è colui che porta protezione e nutrimento alla famiglia. Un uomo investito di una virilità atavica che nasce dalle caverne preistoriche per arrivare alla nostra società moderna. Contro questo Pater si scagliano le sei ragazze dello spettacolo La parola Padre, scritto e diretto da Gabriele Vacis (prod. Koreja 2012).
Tre sono italiane, una è polacca, una bulgara e una macedone (A. Crocco, A.C. Ingrosso, M.R. Ponzetta, A. Gronowska, I. Andreeva, S. Spirovska). Un mix culturale che si sposta verso Oriente, l’Est di un’Europa sempre più periferica con un presente instabile e un passato da dimenticare. Paesi di padri dittatori che venivano chiamati affettuosamente Tato (papà in macedone) e adorati esattamente come un bambino ama il padre, il suo eroe. Con il tempo però l’idea di questo eroe sbiadisce, cambia, lo si riscopre uomo con tutte le sue debolezze. È il tempo di distruggerlo, di abbattere i muri e di ricostruirsi una nuova identità.
Troviamo così le ragazze, figlie del Comunismo che a tratti rimpiangono e a tratti vogliono dimenticare, unite nel crocevia di un aeroporto che le porterà, verso Varsavia, Budapest o Skopje. La scena in cui Vacis ha ambientato questa babele dell’est è scarna, sembra essere un camerino di un teatro o uno spogliatoio, diviso da una parete di fusti di plastica (scene Roberto Tarasco). È questo il muro che le ragazze dovranno distruggere o contro cui si scontreranno in una lotta eterna, dove sanno che per annientare i loro padri dovranno colpire forte. E lo fanno con tutta la loro grinta come se si trovassero dentro una partita di Pacman, inseguite dai mostri della loro vita: «In questo spettacolo le ragazze piangono continuamente, perché questo è un momento in cui noi ragazze d’Europa abbiamo voglia di piangere come fontane.»
Fiumi di lacrime e singhiozzi, ma senza commiserazione, musica ma senza nessuna epicità, perfino canti sulle note di Hot problems, il brano che secondo gli utenti di YouTube è il più brutto della sua storia. Le ragazze dell’est Europa sprigionano la loro vitalità, figlie di un regime assurdo con regole paradossali, hanno trovato il coraggio di essere partecipi della grande trasformazione sociale dei loro Paesi. Le tre italiane, invece, sono nate dall’Europa del benessere, del tutto dovuto e di fronte ai cambiamenti si trovano sperdute, fragili.
Brillante ed efficace sulla scena questa contrapposizione che ha perfino i suoi lati comici; peccato però che all’improvviso l’incantesimo che aveva tenuto insieme lo spettacolo s’infranga e tutto crolla. Nel disastro sopravvivono monologhi intimisti che nulla hanno a che vedere con l’energia fisica dell’inizio. I padri si trasformano in mostri, gli uomini in atroci aguzzini e le storie finiscono per diventare il solito mix di dramma e lacrime.
Si esce dal teatro sconsolati e un po’ delusi per questo finale flaccido, una coda troppo lunga che forse era il caso di tagliare.
Ascolto consigliato
Piccolo Eliseo, Roma – 5 aprile 2016