Tecnologia e artigianato
Ritornare all'evasione con 'OUT' di UnterWasser
In un mondo dominato dall’alta tecnologia, dove la realtà cede il posto al virtuale, il desiderio alla voglia, la parsimonia all’illimitato, cosa ce ne facciamo mai di cartapesta, fili di lana, legno, colla, bottoni, ingranaggi o fischietti? Oggi che ci sentiamo così moderni, tutto questo sembra essere diventato un lusso nostalgico, tanto affascinante quanto obsoleto, accettabile ormai solo dietro la bella etichetta di “vintage”.
Ma, ma, ma: tutto questo è vero se e solamente se continuiamo a piegarci pronamente a una – imperante eppure mai richiesta – legge di mercato (ribattezzata “progresso, sviluppo e crescita” se c’è da abbindolare le masse) secondo cui l’importante non è fare domande ma ingozzarsi di quella continua offerta che ci fa sentire in prima linea nella corsa a un futuro meraviglioso e avveniristico. Futuro che puntualmente poi viene superato da recessione, disoccupazione, povertà. Ma tant’è. Nell’attesa: comprate e tacete.
Insomma, l’hi-tech trionfa non tanto perché “serva” ma perché mantiene viva un’illusione di possibilità-libertà-felicità che gonfia le tasche di chi vi specula. E nel frattempo il caro vecchio artigianato viene riqualificato a passatempo e faidaté; perché dedicarsi a un’arte o a un mestiere con fatica, lentezza e dedizione pare cosa antiquata, se non inutile, o ancor peggio, ridicola.
Ma è veramente così? Guardare all’artigianato smarcandosi tanto dalla panzana del grazioso hobby vintage quanto da qualunque prurito reazionario-oscurantista è possibile. Come?
Si prenda il fortunato OUT della compagnia UnterWasser. Da un lato abbiamo una storia tipicamente favolistica (o, per dirla in termini contemporanei, “archetipico-esistenziale”): il nostro timido protagonista ha paura dell’esterno (l’outness) e se ne sta al sicuro chiuso dentro casa; sennonché una voce dentro di sé chiede di uscire, è un uccellino, canta dalla pancia tonda dell’omino che sotto la camicia rivela una gabbietta. Aperta la porticina, l’uccello non resiste e vola via. Per rincorrerlo, il piccolo eroe di Out esce finalmente di casa, si espone al mondo, attraversandolo in lungo e largo, tra paura e desiderio, incontri e piccole avventure, per poi ritrovare quel cuore fuggiasco e capire che i sentimenti più profondi dell’uomo non vanno mai tenuti sotto chiave.
Se questa è la storia, dall’altro lato abbiamo la sua realizzazione scenica ricca appunto di stoffe, carta, cuoio, legno, fildiferro, cinghie, sagome, ombre e pupazzi. Perché dunque affidarsi a una fattura e a un’animazione del passato quando il presente offre mezzi più moderni? (Se la domanda vi sembra capziosa, provate a proporre a un direttore artistico uno spettacolo di teatro di figura – purtroppo nove su dieci quest’arte è relegata agli angoli dell’impero o, quando va bene, a intrattenimento rétro per bambini.)
Perché il punto è che non è questione di alta o non alta tecnologia (anche l’artigianato d’altronde è tékhnē) ma di che cosa se ne voglia fare. Vivendo però in un tempo affannato di innovazione in cui l’apparenza è tutto, si finisce per credere che le videoproiezioni siano il grande segno di modernità dimenticando probabilmente che la lanterna magica esiste dal 1600, la camera oscura dal 1100, e la scoperta del foro stenopeico risale addirittura a prima di Cristo. E così non si nota ad esempio che la parabola di Out è né più né meno che il quadro della vita contemporanea.
La compagnia UnterWasser infatti non si limita a confezionare una favola, ci restituisce sogni, nevrosi e spaesamenti del nostro tempo. E lo fa immergendo l’artigianalità del teatro di figura in una visione tecnico-artistica squisitamente attuale: si noti ad esempio come si giochi con la prospettiva adottando stilemi del cinema quali le variazioni di inquadratura dal primo piano al campo totale (utilizzando diversi pupazzi in scala dello stesso personaggio). Oppure gli echi pittorici novecenteschi nelle ambientazioni: se la casa dell’omino è uno scacco claustrale di fasce bianche e nere con tanto di quadretti dicromi simil (se non proprio) Rothko; uscendo di casa quel cupo espressionismo astratto si trasforma in un più colorato, seppur ancora squadrato, orizzonte metropolitano à la Mondrian con la vivacità di tratto di Miró; per poi sciogliersi in una grande onda di luce blu o evolvere in tanti cassetti-esperienze di una nonnina dal corpo di armadio (il richiamo non è mai ostentato ma è difficile non scorgere una ascendenza di Dalí o Cornell. E chissà che nel loro stesso nome, tedesco a parte, non ci sia un richiamo a Hundertwasser).
Insomma, non si tratta di essere più o meno tecnologici, no, è il bilanciamento di funzionalità e ricerca estetica (quindi consapevolezza del mezzo anziché sfruttamento esibizionistico) a dare vita all’arte: questa attenzione al dettaglio, alla sfumatura, all’invenzione inesausta finisce per catturare lo spettatore e tenere sempre viva la sua partecipazione immaginifica.
Mentre tanto teatro si smarrisce in un goffo tentativo di aggiornamento (verso cosa, verso dove: non è chiaro), con Out Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio dimostrano che non si tratta né di essere giovani né di essere moderni, si tratta solo di padroneggiare l’arte che si sente vicina alla propria sensibilità e attraverso di essa creare. E non c’è dubbio che quella di UnterWasser sia arte – guai a chiamarla minore – di gran pregio.
Ascolto consigliato
Teatro dell’Orologio, Roma – 17 dicembre 2016
Crediti ufficiali:
OUT
Drammaturgia, regia, costruzione pupazzi, scene, costumi, suoni di
Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio
con Aurora Buzzetti, Giulia De Canio, Stefan Andrei Balan
produzione UnterWasser / BluTeatro
Foto di scena ©Manuela Giusto