Avete mai partecipato a una seduta spiritica? Chi risponderà no, potrà lo stesso far affidamento all’immaginario comune che prevede un gruppo di partecipanti, possibilmente agnostici, seduti attorno a un grande tavolo al centro di un’ampia sala con arredo un po’ rétro, avvolti nella semioscurità, con le mani sulla ouija, la lignea tavoletta con lettere e numeri, e annesso puntatore, o planchette, mosso misteriosamente dagli spiriti dell’aldilà venuti a infestare l’al-di-qua.
Immaginario comune ricalcato anche da Ouija, debutto registico di Stiles White, che porta sullo schermo una dinamica diegetica intuibile e pretestuosa, studiata ad hoc per giustificare il susseguirsi di crudi espedienti volti a spaventare lo spettatore: violente e fulminee rivelazioni sonore e visive di rumori e corpi che invadono occhi e orecchie affinché il rilascio di elevate dosi adrenaliniche distragga la mente e l’attenzione dall’effettiva asciuttezza della struttura narrativa. A cominciare dal suicidio di Debbie (Shelley Henning), avvenuto a causa dell’infrazione della principale regola della ouija: mai giocare da soli, si rischia la tragica fine dei curiosi spettatori della videocassetta di The Ring. E infatti, la sua eccessiva bramosia conoscitiva sul futuro culminerà con il primo punto di svolta che darà il via all’accanita investigazione dell’occulto da parte dei suoi affiatati amici adolescenti e bellocci una sorta di mist(ic)o amalgama ereditario di Dawson’s Creek e The O.C. -. Caposquadra è l’amica d’infanzia Laine (Olivia Cooke), al cui seguito si aggiungono: la trasgressiva e ribelle sorella Sarah (Ana Coto), lo scettico boyfriend Trevor (Daren Kagasoff), la barista Isabelle (Bianca A. Santos), e Pete (Douglas Smith), affranto, ma non troppo, fidanzato della vittima.
Tra le morti misteriose di alcuni personaggi e la contemporanea scoperta di eroiche e coraggiose doti nascoste di altri; tra spettrali e vendicative apparizioni, errori di valutazione e scambi di persona, anzi, di fantasma; tra atmosfere di gotica e oscura inquietudine, e immancabili cliché di genere (su tutti il mobiletto del bagno con antina di specchio, la cui apertura e chiusura lo trasforma in catalizzatore di volti invisibili), la pellicola, prodotta, tra gli altri, da Michael Bay, adegua la sceneggiatura (opera di Juliet Snowden e dello stesso regista) a un meccanico e prevedibile gioco d’incastri di significati e significanti a metà tra Non aprite quella porta e I Know What You Did Last Summer (il cui omonimo messaggio minatorio recapitato ai protagonisti, scomodi testimoni, qui diventa un hi friend d’oltretomba). A mantenere alta la qualità estetica del film, una fotografia incisa da corposi contrasti che trascina lo sguardo nei dettagli cromatici, levigati in profondità da densi chiaroscuri, e una regia precisa ed equilibrata, che preferisce, alle virtuosistiche scalfitture di personalità, il rispetto di tempi e ritmi necessariamente rallentati per mantenere l’ignoto in un dilatato limbo di attesa.
Tuttavia, anche se nessun sapore di novità resta negli occhi dello spettatore, se non la consapevolezza del rispetto dei modelli del thriller soprannaturale, che forse, se lievemente forzate avrebbero potuto creare quel cortocircuito emotivo capace di una vera e propria sorpresa, consigliamo di vedere il film accompagnati, magari da amici. Ma non da soli. Non si sa mai.