Si parte con la tragedia in procinto di consumarsi e si termina con lo sbarco sulla Luna. Tra i due estremi tutto è poco familiare: una tragedia ridotta all’essenziale, un Moro non più nero di pelle, un nuovo personaggio che introduce le vicende, una consistente riduzione del numero dei protagonisti, delle profonde variazioni tematiche, una struttura temporale ellittica, e una recitazione in dialetto siculo. Cosa rimane, dunque, dell’Otello di William Shakespeare? Tutto.
Già, sembrerebbe una rivoluzione totale quella attuata da Luigi Lo Cascio – autore regista e interprete nei panni di Iago – e invece l’elemento essenziale resta intatto. Perché l’Otello è la tragedia della parola: con i suoi racconti il Moro conquista prima Brabanzio e poi sua figlia Desdemona; con la sua lingua tagliente Iago instilla nel condottiero veneziano il germe della gelosia; le battaglie e la gloria vivono grazie alle storie. Non c’è azione, solo parole che possono far innamorare o ingannare, evocare momenti di gioia o distruggere ogni sicurezza. E tutto questo non è minimamente intaccato nella riscrittura.
Le intenzioni di Lo Cascio sono evidenti sin dal principio. Un drappo, sul quale vengono proiettate delle immagini grottesche, viene “sciorinato” lentamente mentre una voce espone la storia del fazzoletto in dialetto siculo, lingua utilizzata da tutti i protagonisti, eccezion fatta per Desdemona (Valentina Cenni). E qui si arriva alla variazione tematica: il razzismo. Se la tragedia del Bardo si fonda sulla discriminazione razziale in base al colore della pelle, qui siamo in un’altra dimensione: uomini contro donne. Nella visione maschilista di Otello (Vincenzo Pirrotta) in cui «i fimmini su’ tutte buttani», si può tranquillamente riscontrare quella dell’uomo moderno, indissolubilmente ancorato al suo retrogrado livello di superiorità maschile.
A rendere tutto comprensibile al pubblico un soldato che entra subito nel vivo dell’azione impugnando saldamente le catene di uno Iago ormai pronto a scontare la propria pena, per poi divenire narratore extradiegetico: a lui è affidato il compito di scandire il tempo e il racconto della tragedia con l’obiettivo di riabilitare il nome di Otello. Continuamente interrotti da questo nuovo personaggio, allora, i due attori agiscono nel segno di una forte espressività corporea: su una scena scarna, composta da sedie, pedane e un disegno luci (Pasquale Mari) dai toni cromatici torvi e scuri, i due mattatori riescono a introiettare lo spettatore nel loro mondo edificato sulla menzogna.
Come già anticipato, la linea temporale ne esce completamente scardinata: si comincia con l’uxoricidio in procinto di realizzarsi e si prosegue con Iago già incatenato, per poi tornare indietro nel tempo e sviluppare la storia del Moro in maniera lineare. Scelta coraggiosa quella di Lo Cascio, ma funzionale al ruolo del soldato. È anche vero però che tale espediente, se da un lato facilita la comprensione degli intenti narrativi, dall’altro rende l’opera frammentaria e didascalica. Forse l’attore siciliano avrebbe dovuto fidarsi di più del suo pubblico.
Cos’è in conclusione quest’opera? È un viaggio nell’oscurità, negli incubi di un personaggio che cerca di recuperare un senno ormai disperso e ritrovato, forse, su una luna di ariostesca memoria. Non è né una semplice rilettura né un’avventata riscrittura, ma una lucida disanima su un tema quanto mai attuale.
Teatro Quirino, Roma – 17 marzo 2015
OTELLO
di Luigi Lo Cascio
liberamente ispirato all’Otello di William Shakespeare
regia Luigi Lo Cascio
scenografia, costumi e animazioni Nicola Console e Alice Mangano
musiche Andrea Rocca
luci Pasquale Mari
con Vincenzo Pirrotta, Luigi Lo Cascio, Valentina Cenni e Giovanni Calcagno
produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione