Rottura e Riconciliazione
L'Odissea di KHORA.teatro
Non può esservi riconciliazione, se non c’è stata una rottura
Parole di Stephen Dedalus, Telemaco moderno dell’Odissea contemporanea per antonomasia l’Ulisse di Joyce. E tra le altre cose, l’Odissea di Omero è proprio il poema della riconciliazione: tra uomo e patria, padre e figlio, marito e moglie. KHORA.teatro riparte proprio dalle origini, portando in scena episodi tratti da quel testo che racchiude il senso più profondo dell’Occidente (primo riferimento l’Omeros di Derek Walcott), senza il quale l’Ulysses non sarebbe mai esistito, e neanche la letteratura così come la conosciamo. Shakespeare compreso.
Lo Spazio Diamante ospita una grande impalcatura: un labirinto di scale e geometrie metalliche abitato da tutti i personaggi a vista (scene Marta Crisolini Malatesta). Itaca è assediata dai Proci, qui membri di un’upper class superficiale e annoiata, mentre Penelope (Eleonora Pace), come una nuova Gertrude aspetta e rimanda nuove nozze con Antinoo (Matteo Tanganelli); troppo distratta dai suoi pretendenti per badare alle esigenze del figlio Telemaco (Federico Brugnone), un nervoso Amleto ossessionato dal fantasma del padre che crede morto. Ecco che la telemachiade assume tinte fosche da revenge tragedy elisabettiana, quando Telemaco decide di andare a Sparta alla ricerca di notizie sul padre, trovando Elena e Menelao in un evidente stato di crisi coniugale.
I personaggi di questa Odissea sono infatti molto più vicini di quanto ricordiamo, filtrati da un linguaggio scorrevole e contemporaneo. E chi è Ulisse? Un ribelle, punito perché osa contraddire l’operato degli dei, ma tanto divertente quanto fragile (Jacopo Venturiero). Eccolo infatti incontrare imbarazzato la spregiudicata ninfa Nausicaa (Francesca Agostini), o scherzare in napoletano con il Ciclope (Elisa Di Eusanio), signora bendata con tanto di riflettore al seguito, o sfuggire allo sguardo di sirene inquietanti intrappolate dentro sacchi della spazzatura. Episodi che si susseguono in un abile gioco di luci e ombre (Andrea Burgaretta), teso a evocare atmosfere ora più sospese, come il ricordo di Penelope proiettata sullo sfondo, ora più a luci rosse del bordello stile Moulin Rouge della terribile dea-maîtresse Circe.
Vincenzo Manna e Daniele Muratore supportati dalla supervisione di Andrea Baracco creano un organismo teatrale in continuo movimento, dove il corpo gioca un ruolo fondamentale nella trasfigurazione delle emozioni e pochi oggetti diventano simboli per scatenare l’immaginazione (una ruota è il timone della nave, il naufragio una tempesta umana di corpi impazziti, una panca la conchiglia in cui Ulisse ritorna a Itaca).
E infine, il nostosdi Odisseo è giunto a compimento: la rottura è risanata, la riconciliazione avvenuta. Ce n’è però un’altra, di riconciliazione, al di là di quella filiale e matrimoniale, quella con la modernità. L’eroe capirà infatti che non può più contare sull’appoggio di Atena né accusare Poseidone delle sue sventure, poiché il Bene eil Male incarnati dagli dei non sono altro che proiezioni della propria interiorità. Tutto sommato, qui Odisseo rimane l’eroe narrato dalla tradizione, senza suscitare particolari suggestioni su come rileggere la sua esperienza con gli occhi di oggi.
Tutto ha inizio da una rottura. Se egli avesse deciso di non prolungare il suo ritorno, cosa di cui lo accusa Telemaco (che rimane il personaggio più approfondito nel sottile sottotesto di rivalità e inadeguatezza verso il padre), si sarebbe risparmiato certo tutta la sofferenza ma anche l’esperienza della vita. E noi non avremmo avuto l’Odissea. Il poema omerico d’altronde sembra ribadire proprio l’importanza della rottura. Perché essere sempre in armonia è il modo migliore per non mettersi mai in viaggio. Non concedersi mai la possibilità di un nostos. Non riconciliarsi mai.
Ascolto consigliato
Spazio Diamante, Roma – 21 novembre 2015