Tutto il mondo in un paese
Assedio al vuoto per i cinquanta anni di Monticchiello
Ma il teatro a Monticchiello c’è o non c’è? E l’assedio del quale si parla? E ancora, Memorie, le sculture di Daniela Capaccioli che omaggiano i cinquant’anni del Teatro Povero, ci sono oppure no?
Dipende dove e come si guarda, dalle luci, dalle ombre, se c’è scirocco o tramontana, dai tassi di interesse, da un cellulare che non prende. Dipende se su queste variabili ci si accomoda o si guardano in faccia per ridar valore a una formula che non torna più.
Notte di Attesa è il titolo scelto per questo compleanno speciale, quello del mezzo secolo di vita. Autodramma della gente di Monticchiello, il sottotitolo adottato dalla Compagnia/Comunità del piccolo borgo senese, incastonato o incastrato nella Val d’Orcia riconosciuta patrimonio Unesco 2004. La paternità del sottotitolo fu di Strehler che seppe cogliere in una formula, riadattandola da psicodramma, il dna del Teatro Povero, fatto da gente non professionista che va in scena e che si combina ogni anno in diverso modo pur restando familiare a se stessa.
Gli abitanti del borgo senese, talmente piccolo che tutto è sempre lì a un palmo di mano ma dentro le mura, scendono in piazza e recitano per quindici giorni consecutivi tranne il 25 Luglio e l’1 Agosto quest’anno un copione che nasce a gennaio con le prime assemblee aperte in cui, tra i discorsi di un paese, si rintraccia quell’interrogativo che si sente necessario mettere su scena.
Quest’anno, ci dicono Andrea Cresti pittore, scultore, ex professore e regista, nonché direttore artistico e Denise Rappuoli, sua compagna e attrice nel Teatro Povero, il tema dell’assedio è stato pressoché immediato: un nemico, vero, presunto, reale, posticcio, inventato, era in mezzo a noi ma il suo volto era sconosciuto.
Ancora più strano allora curiosare nella prima locandina, nel primo titolo andato in scena nel 1967: l’eroina di Monticchiello rievocazione storica di un episodio glorioso del 1553 durante la guerra tra la repubblica di siena e i suoi castelli contro l’esercito di carlo v. Dopo mezzo secolo la gloria fa parte di un ricco archivio storico e l’assedio è talmente capillare, che sebbene non lo si distingua, viene sanzionato, sancito, in questa notte che non smette col buio e che però, ha scritto e detto Eduardo, «ha da passa’».
Cosa facciamo? Ricominciamo. Questo è il refrain continuo che cadenza discorsi mai finiti, il blabla quotidiano di cui tutti ne conoscono l’inizio ma che non finisce mai. Ognuno recita la litania in un suo rosario laico sospeso tra una retorica facile e inutile e una verità indecente e offensiva.
Nella locandina del 1967 solo il nome del paese era maiuscolo, forte dei suoi abitanti che, dalla morte esemplare di Maria, l’eroina bandiera della sua libertà, «fecero tal prova di loro, che i morti meritano buona fama e i vivi honorati premi». Oggi sulla scena di Notte di Attesa vediamo sopravviventi, forse un tempo eroi o forse ladri di speranze, che si allungano fino a noi, fino a un cielo ora stellato ma che ha minacciato di interrompere questa replica.
Dieci minuti di pioggia, e per la seconda volta quest’anno, tutto sarebbe saltato e rimandato all’indomani e invece rientriamo, ci risistemiamo sulle sedie e gli attori ricominciano quasi da dove si erano interrotti. Basterà la battuta di Fabio – «Si aspetta la pioggia. Si guarda come tramonta il sole…la tramontana, il cielo come un vetro e poi tre giorni di scirocco che ti rincoglionisce […]» – per far sorridere il pubblico visto l’incidente appena occorso. E come non farlo?
La scrittura è così naturalmente densa di metafore, simbolismo, (meta)teatralità, che la pioggia sembra l’ennesimo gancio della realtà reale al teatro: apriamo gli occhi e guardiamo attentamente nell’attesa, perché come si fa a distinguere le nostre ombre – paure, timori, nemici – nel buio?
Si decide di farlo mettendosi al riparo dall’alto delle mura, dalle feritoie delle due torri che vengono sollevate per rinchiudersi all’interno. Per ritrovare un po’ di tranquillità, per non voler rimanerne fuori, per provare a vedere se il nemico da lassù si vede meglio, per parlarsi finalmente o per farne una miniera d’oro: l’importante è fare.
E allora si fa cominciando con il rintracciare le storie, evocatrici di epoche, mestieri, dialetti, sistemi economici, generazioni, sospesi eppur coinvolti. Si ritessono e la loro memoria arriva subito un passo dopo; dopo i perché che si trascinano ancora ora in un paese, e in un teatro, che si guarda nel buio di uno specchio per riconoscersi: ieri e oggi contro «i pericoli di un mondo impazzito».
Allora, ci aveva detto Andrea Cresti, era un assedio del vuoto, adesso è un assedio del pieno. Come le toccanti sculture di Daniela Capaccioli, forme familiari trattenute da una rete metallica che modella presenze e assenze umane di cui ci si può anche non accorgere, anche in questo piccolo borgo, anche dove tutto è sempre lì.
Ma allora (ci) sono o no?
Sì, se si può far finta che laggiù, in fondo, ci sia un esercito o delle grandissime macchine, dei professionisti o delle cavallette, degli ologrammi o dei fantasmi. La metateatralità diventa evanescenza portandosi via un’immaginazione che le mura di Piazza Commenda bloccano con le immagini di L’Apprendista Stregone (1940, James Algar).
Ma c’è ancora spazio per un’ultima fantasia, un’ultima battuta, la stessa detta anche cinquanta anni fa, almeno finché non arriva il tempo: quello tiranno che fa calare le luci e il silenzio su un Teatro forse anche un po’ stanco di stare su questo Mondo.
(Foto ©Emiliano Migliorucci, Ufficio Stampa)
Monticchiello (SI) – 28 luglio 2016