Normale o consueto?
Usi e costumi di un teatro italiano contemporaneo
Il grado di sopportazione di un disagio personale è direttamente proporzionale alla sua consuetudine collettiva, ovvero: più una cosa ci sembra normale, più ce la facciamo andare bene. Cos’è allora che ci sembra normale, meglio, cos’è che ci siamo abituati a considerare normale?
Normale, ad esempio, è che a un convegno dei principali festival italiani – rigorosamente a porte chiuse, con inviti riservati – il moderatore inizi invitando i presenti a fare un video di auguri al consulente artistico del teatro ospitante l’evento, assente per nozze, e normale è che il 90% di direttori artistici, critici e accademici si sbracci lanciando baci e auguri.
Oppure, normale è che un membro del Comitato Ubu 2018 contatti privatamente un referendario per orientarne con entusiastica disinvoltura il voto al ballottaggio.
Normale è che si sbandierino i propri voti come fossero quote politiche, e normale è che si ringrazi commossamente di cotanta munificenza.
Normale è che il conflitto di interessi sia considerata roba da malfidati, ché la casa è piccola il cuore grande, come puoi pensar male?
L’Italia […] non pare interessata all’idea di una società giusta; essendo una società di moltissimi deboli e pochi potenti, è una società di complici.
Giorgio Manganelli Raccomandazioni (Corriere della Sera, 17 ottobre 1982)
Normale insomma è fare ciò che fanno tutti perché lo fanno tutti, anche se magari non sei d’accordo, solo che… che fai? ti esponi? No, meglio adeguarsi, e tutto al più aspettare che qualcuno arrivi e gridi «Ma il Re è nudo»—per cominciare a fargli il coro, beninteso.
Spesso si chiede all’informazione di denunciare gli scandali, le storture, i maneggi, i nomi! i nomi! fateci i nomi!, ma la realtà è che nessuno ha la coscienza a posto: chi inneggia alla gogna lo fa più per convenienza che per etica. Per questo molti sanno e quasi nessuno dice, sai mai che alla fine a perderci sia solo tu!
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
—Antonio Gramsci Contro gli indifferenti (La città futura, 11 febbraio 1917)
E cosí nobili consuetudini diventano nobilissima normalità. Norma. Norma tacita però, sotterranea, agile agile, senza regole, tutta eccezioni, che più si reitera più si avvalora: si normalizza, per l’appunto.
Ma, appunto, non c’è da pensare male, no, tutt’altro, è un gesto generoso, questo, da parte del teatro italiano: andrebbero ringraziati i piazzisti della normalità, uno a uno, ché insufflando opaco in questa grande area grigia, risparmiano a tutti la fatica del dubbio: se sai cos’è normale, d’altronde, fai prima a evitarlo e a trovare ciò che normale non è.
Non normale, ad esempio, è la perizia storica e compositiva di Alessandro Berti, che con Black Dick («cazzo nero») affonda nelle questioni razziali senza ripararsi nel consueto paravento di buoni sentimenti multiculturalisti di tanto troppo teatro contemporaneo entusiasta di servire la pappa pronta del fardello dell’uomo bianco o del diverso è bello, che tanto scalderà i cuori ma che, ad esempio, tralascia di ricordare che la tolleranza
non è una posizione contemplativa […]. È un atteggiamento dinamico, che consiste nel prevedere, nel capire e nel promuovere ciò che vuol essere.
—Claude Lévi-Strauss Razza e storia (1952)
Dai porno interraziali alle contraddizioni delle Black Panthers, l’artista emiliano inaugura questo ciclo di «Bugie Bianche» adottando una formula simil-divulgativa continuamente tradita da finezze attoriali, quasi impercettibili (come una improvvisa inflessione veneta che infonde un fulmineo gusto goldoniano a una battuta ironica), che trasformano questa prima conferenza-spettacolo in un arguto pamphlet teatrale a metà strada tra l’estro drammaturgico di Davide Carnevali (Confessione o Maleducazione Transiberiana) e l’ironia corrosiva di Frosini/Timpano (Acqua di Colonia). E non è un caso che abbia debuttato a Casalecchio nell’inconsueta cornice di Gender Bender, ma normale è prevedere che un tale gioiello rimarrà chiuso tra le porte di CasaVuota.
Non normale, poi, è il prodigio musicale di Ermanna Montanari in Fedeli d’amore. Lo si vorrebbe normato, ormai, come fosse un fatto assodato, risaputo, data la notorietà del Teatro delle Albe; eppure così facendo si incorre nell’errore di darlo per scontato, di scontargliene ovvero l’esemplarità. E invece questo concerto di voci per corpo (il corpo politico-poetico di Dante Alighieri, il corpo di un’Italia sempre dilaniata dalla corruzione, il corpo drammaturgico di Martinelli, quello sonoro di Ceccarelli e Olivieri, e il corpo risonante di Montanari) è un prodigio, cioè un pro (davanti) agere, un «porgere innanzi oralmente».
Proseguendo infatti la lectio etimologica e teatrale di Carmelo Bene, Montanari non può che “leggere”: mandare a memoria – re-citare – sarebbe come fare e dar mostra di talento (tipico di tutta quell’attoraglia che suda e si affanna a dimostrare sé stessa); no, qui è un lasciarsi dire, un incarnarsi parole romagnole che non hanno alcun bisogno di essere capite, di rimanere insomma costrette in un bel dire che abbia a significare. Prodigio dunque come uno scontornare la norma del teatro di storie e di messaggi, di prove d’attore o di elucubrazioni teoriche. Materia ineffabile, effimera, prodigiosa nel suo liberare l’abbandono dal dominio del senso.
In questo senso non normale è anche l’esperienza immersiva del Teatro del Lemming, che a vent’anni dal debutto continua a ripresentare il suo Amore e Psiche (1999). Più che uno spettacolo un rito, destinato solamente a un uomo e a una donna: verranno condotti da un ambiente all’altro, invitati a consumare cibi, annusare aromi, sfiorare corpi nel buio, sciogliersi in abbracci, affrontare la morte e il sotterramento, per poi infine riunirsi e celebrare il proprio matrimonio impossibile innanzi ad Afrodite. E in poco più di mezz’ora a ritrovarsi a toccare il mistero di un’intimità improvvisa e impronunciabile con un perfetto sconosciuto, così inafferrabile e profonda da provarne quasi pudore. E se forse la repentinità delle transizioni sottrae a chi vi partecipa il tempo delle domande, è evidente che al suo ideatore Massimo Munaro non sembra premere tanto la dimensione estetico-psicologica quanto piuttosto la natura misterico-esperienziale di questo non-spettacolo.
Discorso analogo per la schiusa di grazia nel movimento interiore di Alessandra Cristiani. A Genova, nello sfarzoso vuoto della Sala del Maggior Consiglio – merito della seria e accurata perseveranza di Akropolis Teatro (festival Testimonianze Ricerca Azione), che nonostante la ferita cittadina è riuscito a gettare nuovi ponti interdisciplinari, come un’intera giornata dedicata al Butō con nomi internazionali quali Imre Thormann e Masaki Iwana, nella cornice straordinaria di Palazzo Ducale –, il corpo nudo di Cristiani viene abitato dagli ambienti naturali e dai versi di Marcello Sambati. Non ci sono qui gesti significativi: l’essenza di Clorofilla infatti non va cercata in ciò che si mostra allo sguardo ma nel suo invito all’abbandono, a quel continuo riversarsi di flussi tra corpo umano e corpo spaziale (che non “circonda” invisibilmente la performer bensì è con essa un tutt’uno traspirante, un abitato abitarsi). Come la luce (Gianni Staropoli) è in lotta, apparentemente immobile, con la verticalità della propria dilatazione-dispersione, così la gravità del peso corporeo di Cristiani è in rapporto di prostrazione e levitazione con un cielo che non c’è e pur si vede.
Il lettore spregiudicato a questo punto comincerà a sospettare un po’. Potrà sembrargli questa una catalogazione faziosa. Le parole che svolazzano in evocazioni sfarfallanti. Già. Caro lettore, hai ragione. Ma questi non sono spettacoli normali. Anzi, non sono proprio spettacoli. Come dire, non sono casi di arte borghese, o come preferisci chiamarla, quell’arte buona cioè per i ragionamenti colti: qui non c’è neppure quella «ricerca» che sembra tutta una finezza altissima e un po’ incomprensibile per soli iniziati. No. Questi ultimi tre sono casi di teatro puro, libero dalla (cosiddetta) urgenza del (cosiddetto) contemporaneo. Poi, sì, li si può anche descrivere analiticamente, interpretare criticamente, definire storicamente. Ma sarebbe un peccato. Per una volta che non c’è da «capire», (di)spiegarli equivarrebbe a tradirli. Sono esperienze estatiche: non come complimento però, «estatiche» come ex stasis, come esperienze «fuori» dallo «stare»—dallo stare dove?, dirai tu, dalla conventicola degli spettacoli. Fuori dalle chiacchiere mondane sul piacere, sulla riuscita, sulla bravura. Ma rientriamo nei ranghi.
Per nulla normali poi sono i debutti di due artisti ventenni: il Premio Riccione-Tondelli 2018 Per il tuo bene di Pier Lorenzo Pisano (classe ’91) e la Menzione Speciale Scenario Infanzia 2018 Domino degli Eskere (Alice Sinigaglia, classe ’96). Entrambi infatti prendono le distanze dai tormentoni sociali del momento e si calano nel nucleo relazionale per eccellenza—la famiglia. Le loro sono famiglie tipo, universali, astratte dalla necessità di connotazioni stringenti, ritratte a partire da un vuoto. Questo vuoto è un vuoto di comunicazione o, meglio, un’incomunicabilità. Davanti alla domanda «Come sta papà?/Cos’ha la mamma?» (nel primo caso, un figlio maggiore che è andato a vivere da solo; nel secondo un bambino che viene tenuto in una bolla di bambagia) tutti tacciono, non sanno o fanno finta di non sapere. Non se ne deve parlare.
Seppur con produzioni, forme, scritture ed esiti completamente diversi, colpisce che in ambo i casi l’individuo contemporaneo non venga colto nella consueta forbice di istanze identitarie e pressioni politico-culturali, bensì in una dimensione esistenziale intermedia, quella di chi cerca una propria autonomia ma non vuole rescindere totalmente i rapporti dall’habitat famigliare (Per il tuo bene), o di chi non riesce ad adagiarsi completamente nella cuccagna in cui viene relegato senza sospettare che sotto ci siano implicazioni di cui si deve pur preoccupare (Domino).
Scritture fertili, vivaci, dirette con semplicità e schiettezza, tanto interpretativa quanto scenica, spurie di dimostrazioni, ricche piuttosto di quella bella ingenuità che è sintomo di giovinezza fervida e non di giovanilismo stantio.
Segno che forse c’è da disinteressarsi un po’ delle opinioni correnti della sedicente comunità teatrale o della stampa di settore, soprattutto quando sembra reiterare sempre gli stessi giudizî e le stesse fonti, quasi che la verità fosse una soltanto, figlia dei corsi di laurea o di critica, delle tendenze del momento o della pura inerzia culturale del mondo intellettuale contemporaneo. Insomma, di ciò che è normale.
Il problema per l’intellettuale non è tanto la società di massa nel suo insieme, quanto il gruppo degli addetti, degli esperti, delle conventicole e dei professionisti che […] plasmano l’opinione pubblica, la rendono conformista e l’invitano ad affidarsi a una cerchia superiore di individui onniscienti che esercitano il potere.
—Edward W. Said Dire la verità (1994)
Non normali infine sono due piccole realtà toscane. Una è stata inaugurata lo scorso ottobre, a Pistoia, poco fuori dal centro, nella zona industriale: è la Segheria (Culturale), così chiamata – pare – perché sorge accanto a una falegnameria; ma se la spiegazione dovesse risultare poco convincente, basti sapere che dietro quel nome ambiguo si cela tutta la natura beffarda dei suoi fondatori, Gli Omini.
L’altra invece è il Lavoratorio, Firenze, Campo di Marte, un’ex pelletteria di famiglia che Andrea Macaluso tre anni fa ha deciso di ristrutturare e trasformare in una fucina culturale, tra le più promettenti nella geografia teatrale degli spazi indipendenti.
Sono luoghi in cui riscoprire il piacere di una frequentazione che ha il sapore della curiosità, dell’accoglienza, della prossimità: di spettacoli – per necessità o per vocazione – lontani dall’approvazione dei circuiti e per questo molto più vicini a un confronto spontaneo con il pubblico, quale che sia. Ché l’indipendenza soffrirà anche di miseria, ma di sicuro è libera da qualunque processo di normalizzazione. Ammesso e non concesso, ovviamente, che sul lungo termine sappia resistere alla tentazione della mangiatoia pubblica, che più sfama e più affama.
Osiamo affermare che quanti ricevono uno stipendio mensile o annuale che piove loro addosso con regolarità – cosa senza dubbio sommamente gradevole – possano a stento farsi un’idea precisa della rischiosa esistenza di un artista che crea in piena autonomia. Libertà e autonomia presuppongono una lotta dura, incessante.
L’arte è una rupe di vertiginosa altezza, e chiunque fornisca a un artista esordiente che vi si inerpica un minimo di denaro o gli dia buoni consigli è di rado consapevole, o è del tutto ignaro, di quanto esigua sia l’offerta in rapporto alle difficoltà che si ergono dinnanzi all’anima e alla mente dell’artista, e nelle quali il suo cuore si è già aperto un varco.
—Robert Walser Vita di un pittore (1919)
Qui ad esempio si può vedere il teatro di figura senza stare a preoccuparsi che qualcuno lo prenda per teatro di serie B. Come le storie sghembe di buffi omini di pezza – è il caso de L’altro giorno di Teatro Elettrodomestico – che con la trasognatezza di un idiot savant perdono il pene all’improvviso o all’improvviso si ritrovano a diventare presidenti del proprio Paese, ma che non per questo si scompongono, anzi, affrontano l’assurdità della realtà con sgangherata e provvida creatività (e va pur detto che il contesto evocato da Pablo Noriega risuona molto più realistico di quanto la surrealtà degli avvicendamenti non lascerebbe credere).
Qui, ancora, fiabe moderne come Leonce und Lena di Büchner rivivono con maestria e irriverenza tra le mani, le voci e le creazioni tutte artigianali di Patrizio Dall’Argine e del suo piccolo grande Teatro Medico Ipnotico, in una fervida commistione di tradizione e innovazione che dialoga con l’arte moderna e contemporanea (come i curatissimi fondali del teatrino, riecheggianti ambienti pittorici, figurativi e cinematografici otto-novecenteschi); tanto da chiedersi: ma perché un abbonato deve sorbirsi sempre le solite rappresentazioni obsolete, anchilosate, incipriate qua e là di accorgimenti scenotecnici vagamente hi-tech, quando c’è tanto teatro che si industria a concepire creazioni per nulla respingenti? Quanto è bassa, cioè, la stima dell’intelligenza del pubblico?
Ma no, ma no, è normale che sia così. Se poi qualche artista si ostina a proporre altre idee di teatro, o non partecipa a bandi, a convegni, a finanziamenti pubblici, mica c’è da imparare qualcosa, va’ là!, si vede che è eccentrico, ma tanto non lo si programma, o tutto al più gli si dà un bel premio o una produzioncina così si placa e anche lui comincia a credere nella bontà ecumenica delle gioiose congreghe.
Ché, ricorda, caro lettore, nonostante il mondo sia cambiato, il mercato abbia annacquato le arti, la stampa scaduta a infotainment, il consumismo distrutto il senso critico, il marketing indotto bisogni fittizi, il 2.0 acuito vanità e alienazione, la precarietà avvallato qualunque scrupolo di opportunismo, il teatro invece è rimasto saldo, imperturbabile, irreprensibile, incorruttibile, una comunità generosa, compatta, dal cuore grande. Le catastrofi culturali, sociali e politiche non lo hanno scalfito. C’è solo qualche questioncina economica da risolvere, sì, per carità, ma sono tutti animati dai migliori sentimenti.
Se poi, al di là di tutte le rassicurazioni, dovesse venirti comunque il dubbio che qualcosa non torni—non preoccuparti: è normale.
Ascolto consigliato
chi si offende tradisce il patto
con l’inutile omertà
rimane senza la protezione
del silenzio, dell’assenso
del “tanto dobbiamo sopravviverci qui dentro”
Letture consigliate
• Alessandro Berti: storia di cazzi neri e di bugie bianche, di Massimo Marino (DoppioZero)
• Fedeli d’amore, di Maria Dolores Pesce (Dramma.it)
• Il grado zero del movimento, di Enrico Piergiacomi (DoppioZero)
• Per il tuo bene, lo spettacolo di Pier Lorenzo Pisano, di Giuseppe Distefano (ArtTribune)
• Il Lavoratorio, apre a Firenze la nuova casa comune delle arti, di Matteo Brighenti (PAC)
• L’essenza misteriosa della poesia. Leonce und Lena di Teatro Medico Ipnotico, di Lucia Oliva (Planetarium)
• H.C. Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore (1837)
• G. Manganelli Mammifero italiano (Adelphi, 2007)
• E.W. Said Representations of the intellectual (Dire la verità, Feltrinelli, 1994)
• P.A. Taguieff Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti (Raffaello Cortina, 1999)
In apertura: Helen Levitt New York (1978) ©Galerie Thomas Zander, Colonia
BUGIE BIANCHE. CAPITOLO PRIMO: BLACK DICK
ideato e interpretato da Alessandro Berti
ricerca storica Gianluca Gabrielli, Juliet Rogers
consulenza iconografica Daniela Neri
realizzato con Gender Bender Festival, Teatro Comunale Laura Betti, Ater, Barfly – Teatro fuori luogo, Opera Prima Festival, Mezza Stagione Errante, Ogni casa è un teatro
Gender Bender, Teatro Laura Betti, Casalecchio (BO) – 29 ottobre 2018
FEDELI D’AMORE
polittico in sette quadri per Dante Alighieri
di Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari
musica Luigi Ceccarelli
tromba Simone Marzocchi
regia del suono Marco Olivieri
spazio e costumi Ermanna Montanari e Anusc Castiglioni
ombre Anusc Castiglioni
disegno luci Enrico Isola
tecnico luci e video Fagio
tecnico ombre Alessandro Pippo Bonoli
assistente luci Luca Pagliano
setar persiano in audio Darioush Madani
realizzazione musiche Edisonstudio Roma
consulenza musicale Francesco Altilio, Giulio Cintoni, Cristian Maddalena, Mirjana Nardelli, Fabrizio Nastari, Giovanni Tancredi, Andrea Veneri
consulenza iconografica Alessandro Volpe
sartoria Laura Graziani Alta Moda
grafica e serigrafia su tessuto La Stamperia laboratorio artistico di Andrea Mosconi
elementi di scena realizzati dalla squadra tecnica del Teatro delle Albe
Alessandro Pippo Bonoli, Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Dennis Masotti, Danilo Maniscalco, Luca Pagliano
organizzazione e promozione Silvia Pagliano, Francesca Venturi
ufficio stampa Rosalba Ruggeri
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia 2018 (progetto cofinanaziato da POC Campania 2014-2020) e Teatro Alighieri di Ravenna
Teatro Rasi, Ravenna – 6 dicembre 2018
AMORE E PSICHE
una favola per due spettatori
con Diana Ferrantini, Alessio Papa, Fiorella Tommasini e Chiara Elisa Rossini
musica e regia Massimo Munaro
produzione Teatro del Lemming
Teatro Studio, Rovigo – 8 novembre 2018
CLOROFILLA
disegno luci Gianni Staropoli
voci e materiali sonori Marcello Sambati
fotografia Daniele Vita
progetto e performance Alessandra Cristiani
con il sostegno di Armunia Centro Residenze Artistiche Castiglioncello, Officina Dinamo. fucina creativa
con il contributo di La società dello spettacolo associazione di cultura, Centro di Residenza Foligno InContemporanea
Testimonianze Ricerca Azione, Palazzo Ducale, Genova – 10 novembre 2018
PER IL TUO BENE
testo e regia Pier Lorenzo Pisano
scene Giulia Carnevali
luci Vincenzo Bonaffini
costumi Raffaella Toni
sound designer Mattia Persico
assistente alla regia Camilla Brison
con Alessandro Bay Rossi, Marco Cacciola, Laura Mazzi, Marina Occhionero, Edoardo Sorgente
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Marco Fieni
capo elettricista Vincenzo De Angelis
fonico Pietro Tirella
scene costruite nel Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Sergio Puzzo, Riccardo Betti
scenografa decoratrice Lucia Bramati
immagine manifesto e grafica Marco Smacchia
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arca Azzurra Produzioni, Riccione Teatro
testo vincitore del 12° Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”
foto di Luca Del Pia
Arena del Sole, Bologna – 27 gennaio 2019
DOMINO
regia Alice Sinigaglia
drammaturgia collettiva Generazione Eskere
con Leonardo Bernardini, Gianmaria Meucci, Claudia Natucci, Tommaso Pistelli, Caterina Rosaia, Alice Sinigaglia, Davide Sinigaglia, Giordano Tommaso
produzione Associazione Gli Scarti
Teatro al Parco (Briciole), Parma – 26 novembre 2018
L’ALTRO GIORNO
testi Pablo Noriega
di e con Eleonora Spezi, Matteo Salimbeni
scena e marionette Eleonora Spezi
produzione Teatro Elettrodomestico
in coproduzione con Nata Teatro, Diffusioni/KanterStrasse
con il sostegno de Il Lavoratorio, Firenze; Teatro del Lavoro, Pinerolo; AttoDue-Laboratorio Nove, Sesto Fiorentino
Segheria Cuturale, Pistoia – 3 febbraio 2019
LEONCE UND LENA
burattinai Patrizio Dall’Argine, Veronica Ambrosini
assistenti di baracca Thea e Virginia Ambrosini
musiche Marco Amadei, Luca Marazzi
burattini, scene, costumi Patrizio Dall’Argine, Veronica Ambrosini
Il Lavoratorio, Firenze – 21 ottobre 2018