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Non c’è (ancora) nessuna Dark Side… Quarant’anni dopo

In questi giorni piovosi, quasi inglesi, sto cercando di finire il mio film, che dura da sei anni in un certo senso. Non so se lo finirò mai, ma una delle pochissime cose di cui son rimasto convinto fin dall’inizio è il titolo: “Non c’è nessuna Dark Side..”. Mi è venuto così, durante i pomeriggi del liceo, senza pensarci neanche troppo su, perchè quel disco era già assimilato, già passato e consumato. Perchè quei quattro fricchettoni britannici sono le persone che nettamente di più hanno influito sulla mia cultura. Proprio in questi giorni ricorre il quarantennale dall’uscita di quel vinile e io ho provato a fare un esperimento. L’ho sentito molto poco in questi ultimi sei anni, così mi son rimesso a (ri)ascoltarlo quasi in loop per giornate intere e in qualsiasi spazio e tempo, solo per cercare di capire anche solo un briciolo della sua magia. Il risultato l’ho scritto qui, ben sapendo che ogni singola lettera aggiunta a quell’opera risulterà comunque inutile.

Quarant’anni, oggi. In quanti lo posseggano è un mistero (si parla di più di 30 milioni di persone), ma di sicuro la platea è sterminata. The Dark Side of the Moon non è solo un disco. E’ un’icona pop, una suppellettile d’uso domestico, un pezzo di arredamento in milioni di salotti in tutto il mondo. Un ritratto di Dorian Gray rovesciato, che non invecchia mai.

Impossibile. Arriva proprio in un momento cruciale per una band che ha sperimentato tutto il possibile durante il primo decennio della storia del rock come lo si conosceva. Dopo la fase della psichedelia barrettiana (The Piper at the Gates of Dawn, 1967), immersi tra gli acidi, le luci e i watt dell’Ufo Club nella Swingin London più marcata, e quella della sperimentazione sfrenata (dal caos di A Saucerful of Secrets agli estremismi del doppio Ummagumma, dall’immensità di Atom Hearth Mother alla collaborazione con Michelangelo Antonioni fino al Live at Pompei e ad Echoes, suite capolavoro e spartiacque che chiude Meddle, il predecessore di Dark Side) inizia la fase centrale della storia dei Pink Floyd. Quella della completezza, dei concept album e della perfezione formale, la trilogia possibile sulla pazzia fino alla naturale materializzazione di essa, in cui confluiscono tutti i folli esperimenti musicali della loro carriera pregressa.

La fase che vede sorgere il genio paranoico di Roger Waters, che presto diventerà prima il leader indiscusso (Animals), poi un dittatore (The Wall) e infine l’unico membro del gruppo, o meglio l’unica mente dietro al progetto (The Final Cut). Poi Waters se ne andrà e inizierà la fase finale dei Floyd con la leadership di David Gilmour, l’operaio che ostinatamente continua a tenere aperta la fabbrica dei sogni; ma questa è un altra storia, forse anche trascurabile.

La band che in fondo non ha nessuna faccia, perché è solo suono. Un suono che nel caso di quel Dark Side è rimasto imprescindibile. Anche se subito non ti piace o ti appare scontato, ti si appiccica come miele alle tue orecchie, scava nella tua mente con quella potenza diegetica (la “messa in musica” della vita quotidiana) e con quell’ossimorazione (una dolce ballata che ti mostra la fine) assolutamente inspiegabili ed uniche. Potenza delle macchine analogiche allo stato dell’arte e merito di artigiani straordinari come Alan Parsons, che con il registratore a sedici piste da poco installato ad Abbey Road fece miracoli, regalandoci quel suono quadrifonico così penetrante. Un flusso conciso, melodico, morbido, strutturato, fluttuante, drammatico, caldo ed evocativo di precisione chirurgica nell’accorto dosaggio di sperimentalismo “underground” e comunicativa “pop”.

Quando si pensa a Dark Side non si pensa alle singole canzoni ma al disco intero, questo flusso ininterrotto di quarantatré minuti “montato” senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro. Un concetto demodé, all’epoca dell’iPod, dello streaming, dell’ascolto mordi e fuggi, e forse per questo ancora così affascinante. Un disco che per essere gustato fino in fondo esige attenzione, concentrazione, sospensione del tempo e dell’attività quotidiana. Una fuga verso un mondo parallelo, o in un’altra parte di sé. Un’esplorazione del proprio spazio interiore. L’ascolto di quest’album sollecita ancora la sensazione di un viaggio misterioso verso l’ignoto, un senso di avventura che trascende la banalità del vivere. Così distante dall’ascolto quotidiano ma così radicato nella nostra quotidiana percezione delle cose.

Ma andiamo alla radice. The Dark Side of the Moon sembrava figlio del suo tempo, di un’Inghilterra attanagliata dalla recessione, dall’austerity e dall’escalation degli attacchi terroristici dell’IRA, all’interno di un mondo giovanile che aveva da poco perso l’ultima speranza per un cambiamento (il Sessantotto ed i suoi fantasmi). Sembrava solo lo specchio di una nazione e di una civiltà occidentale a cui i concetti base espressi nel disco – la follia, la sete di denaro, lo stress della vita moderna – risuonavano sinistramente familiari. Ma non basta questo a spiegare la prolungata consonanza di quella musica con un pubblico transnazionale e intergenerazionale composto da gente che con la lingua e la cultura inglese ha ben poca familiarità. E allora? Se la musica è un grande schermo in cui ognuno proietta le emozioni e i significati che desidera, allora Dark Side è perfetto, già definitivo.

Il cut up rudimentale di suoni e rumori catturati dalla vita quotidiana (i ticchettii di orologio, i passi affrettati, le monetine tintinnanti, le risate spiazzanti, i frammenti parlati che attraversano il disco dall’inizio alla fine) trasmette ancora, quarant’anni dopo, un senso di qui e ora, di vita che scorre, di musica calata nella realtà, assolutamente magici. Lo spazio e il tempo non ci sono più, c’è il flusso delle cose, c’è un raggio di luce e il suo spettro, la sua decostruzione. La copertina creata dallo studio Hipgnosis (l’immagine “clinica e fredda” del prisma, spiegò anni dopo Storm Thorgerson, rievocava gli spettacolari live show della band e rappresentava simbolicamente un altro dei temi portanti del disco, l’ambizione umana) creava e crea tuttora spazi di immaginazione sconfinata. Come i voli pindarici e orgasmici della voce di Clare Torry che hanno fatto da tappeto sonoro a innumerevoli documentari naturalistici, a spettacolari acrobazie di paracadutisti, a esplosioni di vulcani, ma anche a filmetti porno, spogliarelli e spettacolini erotici nei quartieri a luci rosse di Amsterdam e di Amburgo. Quanto di più pop(olare) si sia mai sentito, visto e in un certo senso vissuto. Popolare perché nostro, perché ognuno di noi nel bene o nel male è raccontato in Dark Side.

Il disco inizia con Speak To Me e Breathe (In The Air), due pezzi che fungono da chiave di interpretazione all’intera opera: lo stesso battito del cuore con cui si concluderà la traccia finale, mentre sono riassunti tutti i campionamenti, vocali e non, indispensabili per la decifrazione del disco. L’accozzaglia di suoni diviene sempre più ossessiva finché delle urla (attribuibili simbolicamente tanto a un pazzo quanto a una madre nel momento del parto) non introducono Breathe, che fornisce un tema musicale al concept album (verrà ripreso alla fine di Time e di Any Colours You Like) e rappresenta la nascita di un ipotetico protagonista di Dark Side, quindi ognuno di noi. L’intero concetto di nascita e vita è invaso da una visione alienata dell’essere umano come strumento di lavoro, in netta contrapposizione con la meravigliosa musica e la dolce voce di Gilmour.

Ad aumentare la drasticità della visione proposta dal disco è la successiva On The Run, una strumentale orrorifica rappresentazione della fretta che caratterizza la vita dell’essere umano, inconclusa, sospesa, come se qualcosa fosse ancora irrisolto. Passi di corsa in un corridoio, respiro ansimante. Poi il trillo e il tichettio di orologi, l’english way of life. In Time la vita passa velocissima, si parte giovani pieni di tempo da perdere poi, senza neanche accorgersene, ci si ritrova vecchi con molte cose irrisolte alle spalle e poco tempo rimasto da vivere. L’assolo lancinante di Gilmour, spazio vuoto. Qui Breathe finisce e, come allegoria musicale di una vita finita male, si chiude con un accordo in cadenza imperfetta. Il tema della morte sarà il punto centrale di The Great Gig In The Sky, fatta di un erotismo paradisiaco indescrivibile. Il vocalizzo senza respiro di Clare Torry. Pur non essendoci parole, il tema della canzone e la filosofia riguardo la morte, rielaborata da Waters con sarcasmo nero, sono palesate dai campionamenti vocali di varie persone intervistate sull’argomento. Un orgasmo sofista della morte. Così si chiude il lato A di Dark Side, incentrato sulla vita, che si apre con la nascita e si chiude con la morte; nell’allegoria che sta alla base dell’album, rappresenta il lato luminoso della luna.

Il lato B è il vero lato oscuro, un’indagine che parte dall’alienazione sociale più materiale per poi arrivare nei meandri della pazzia più pura, condotta alla fine dell’album senza neanche un momento di pausa, ma incastrando i cinque brani in un epico e inarrestabile crescendo. Money inizia con i campionamenti di una cassa da supermercato registrati da Waters e utilizzati come espediente ritmico; la prima volta che la musica concreta incontra la musica leggera e pure in una canzone che è tra i brani blues più sfacciati della carriera dei Floyd. Lo spaesamento, la macchina dei soldi, in un’accezione ancora una volta molto simile alle filosofie marxiste. Un’altra serie di voci campionate introducono al tema dell’alienazione dalla società e dell’incomunicabilità: Us And Them. Un dolce suono di pianoforte, la voce di Wright soffusa, noi e loro, chi c’è ancora e chi non c’è più, un inno all’etnocentrismo, al confronto e alle semplici dicotomie per descrivere le relazioni personali. In coda Any Colours You Like, (non dissimile a On The Run) un altro brano strumentale, questa volta non più elettronico, ma un affresco straniante e distante di tastiere dalla forte intonazione psichedelica, fluttuante e spaesante. È il preludio alla perdita del sé e infatti parte all’apice dell’alienazione sociale (Us And Them).

Ancora un ultimo ricordo della vita “normale” con il secondo, brevissimo, reprise di Breathe ed ecco iniziare Brain Damage, elogio totale alla pazzia, con continui rimandi alla figura di Barrett (“the lunatic is on the grass“), a quella del gruppo (“and if the band you’re in starts playing different tunes / I’ll see you on the dark side of the moon“) e con immagini sempre più forti, un climax linguistico e sonoro. Un vortice, lo stacco imperioso di Mason. Esplodono l’organo di Wright, il basso potente e la voce surreale di Waters, una sentenza. Eclipse, l’ideale chiusura musicale dell’album funge anche da chiave di lettura di tutto il concept e del motivo per cui quel concept non è altro che il concetto alla base delle nostre fragili esistenze/menti. Dopo aver riassunto pressapoco ogni situazione che una persona affronta durante la sua vita, la negazione del reale; ogni cosa noi possiamo fare sotto il sole è illuminata, ma il sole è eclissato dalla luna. Tutto ciò che è sotto gli occhi altrui (il sole), è quindi armonioso, ma la pazzia prende sempre il sopravvento (la luna che lo eclissa). Solo durante la fase di eclissi all’occhio umano è concesso di vedere il lato oscuro della luna. La luna è l’individuo, il lato luminoso è ciò che l’individuo mostra alla società, il lato oscuro è ciò che l’individuo preclude alla società, dove risiede ogni tipo di pazzia, dalla più ordinaria alla più sfrenata. Alla fine il lato oscuro siamo noi, la luna è li solo per (di)mostrare la nostra oscurità.

Mentre scorre l’ultimo campionamento vocale, quasi impercettibile (“There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark“) e il tornare del battito cardiaco si porta via quei quasi quarantatré minuti infiniti, ti rendi immediatamente conto che Waters, Gilmour, Wright e Mason son andati ben oltre ad un album di musica leggera, probabilmente ben oltre anche a quello che avevano pensato. Non è solo uno studio di vari aspetti della vita umana (di cui la pazzia è l’unica catarsi possibile che finisce per esserne risolutrice) The Dark Side of the Moon è una colonna sonora della vita di ognuno di noi, quasi una condanna estetizzante dell’uomo moderno, una spada di Damocle che grava sulle nostre teste mentre tutto scorre, e noi non riusciamo nemmeno ad orientarci. Il lato oscuro della luna è solamente il lato della nostra personalità invisibile a chi ci circonda, fino a quando diventa invisibile anche a noi stessi.

Ci si rende ben presto conto che The Dark Side Of The Moon oltre alla grandezza della formula musicale, così “classica” (nell’accezione “rock” del termine) eppure così aperta alla psichedelia, al progressive e ad alcuni momenti colti e sperimentali, è un’opera completa sotto tutti gli aspetti, un momento fondamentale della cultura nel secondo Novecento. Un’evoluzione, un mettere su nastro molta letteratura (Joyce, Pirandello) ed arte visuale (dalle avanguardie, all’iperrealismo e la Pop Art) del nostro secolo; poi prendendo in causa i vari collegamenti con la filosofia antica e moderna (Adorno, Sartre, Debord) e le allegorie astronomiche affatto casuali (anzi, fondamentali per decifrare il significato dell’album), codificare un saggio definitivo tra vita, morte (e follia) verso la fine del secondo millennio.

Tale legame con la pazzia è dovuto all’ombra (ancora e sempre più) ingombrante di Syd Barrett, primo leader della band, mitizzato dai fruitori occasionali di musica come il genio sregolato col cervello fottuto dalle droghe, ma in realtà da sempre schiavo di una personalità instabile e tendente all’alienazione nonostante il talento assoluto (tema che verrà poi sviscerato nell’album seguente, Wish You Were Here, dove il riferimento a Barrett è definitivamente palese, tanto che lo stesso Syd quasi magicamente si materializzza ad Abbey Road per “finire le chitarre”). I Floyd probabilmente non ci sarebbero mai stati senza di lui e l’esperienza con lui segnò tutti nel profondo lasciando un marchio così indelebile che poco mancherà a Waters per impazzire lui stesso.

Anzi. Ultima data del tour di Animals (1977), a Montreal, Waters stanco e teso sputa in faccia ad un fan urlante nelle prime file, l’inizio della fine. Sparisce per tutti, nessuno sa dove si sia nascosto per molti mesi. Schiacciato da quel peso insopprimibile, che lui stesso racconta in questa trilogia, contro un muro; vedersi materializzate le proprie paranoie, quelle che dieci anni prima avevano già condannato il migliore amico. Tornò dagli altri Floyd con centinaia di pagine di testi, e ne tornò da persona cambiata, che voleva uscire da quel muro. Solo riuscendolo a raccontare (The Wall, 1979), cosa impossibile per una persona fragile come Barrett, riuscì in qualche modo a farlo esplodere. Anche se questo doveva dire, in un certo senso, di mettere la parole fine alla storia dei Floyd. Quello che successe dopo, nei ventisei anni successivi, non ci interessa; come sempre la ragione oscilla tra il buon senso e la follia.

Apparizioni spontanee, tre nuovi dischi (più un live) sotto l’era Gilmour, l’evento assoluto in mondovisione di Venezia, poi il due luglio duemilacinque. Ricordo che ero appena tornato a casa da un’operazione, non respiravo bene, mangiavo gelato e avevo appena finito Inside Out (la splendida autobiografia di Mason, scritta al contrario, come dice lui). Faceva caldissimo. Tutto il pomeriggio, davanti al ventilatore e alla tivù. Arrivano gli Who, le schitarrate a tutto braccio di Townshend e quel microfono che continua a roteare di Daltrey, Hyde Park si scalda. Sono circa le 22.30, i rumori di On the Run, una zoomata lentissima sul palco. Inizia Breathe.

La risposta forse è anche qui. Waters un fisicato pensionato quasi afono, Gilmour pacioccone appoggiato sulla sua Strato nera, Wright appena tornato dalle vacanze e Mason rugoso sulla poltrona d’ufficio. Guardano, sorridono, pensano a Syd, a tutti quelli che non sono li e sicuramente penseranno che fra poco neanche loro saranno più li, ma quella sinfonia sulle nostre vite resterà sempre. La suonano. Un brivido fortissimo, lo ricordo. Un anno dopo Syd se ne va nell’anonimato, e ancora più nell’anonimato anche Wright scompare due anni dopo. Tutto il resto è silenzio, il continuo mistero della band che è solo suono, anche se neanche il suono c’è più.

Ora i quarant’anni di questo Dark Side, così inutile definirli attuali. Perché tutto è molto più semplice di quello che sembra, basta far scorrere quel disco in ogni momento, fartelo scivolare in ogni istante della tua vita così sospesa. Ogni giorno che un uomo si alza e respira, che pensa allo scorrere del tempo o ai soldi che ha nel portafoglio, che si chieda cosa sia la vita o cosa ci sia dopo la morte, che incontri un altra persona o stia in solitudine, che costruisca o che distrugga, che pensi o che veda, che senta o che impazzisca, Dark Side sarà sempre attuale, più attuale di tutto il resto, magicamente. Sicuramente non è l’album più innovativo dei Pink Floyd e certamente ci saranno state espressioni musicali superiori in quegli anni, ma nulla raggiunse neanche minimamente, questa totalità. Perché Dark Side siamo noi, è la nostra storia e basta. Roger, David, Richard, Nick (e in un certo senso Syd) hanno eretto una sinfonia alla vita di tutti giorni, quella passata sul treno, in ufficio, in casa, in banca, in chiesa, in ospedale e soprattutto sulla luna. Si, perché è sempre li che sono proiettate tutte le nostre azioni come tutti i nostri sogni, quello spazio metafisico solo nostro e spesso oscuro. Solo lei può eclissare la luce su tutto ciò, e loro l’hanno raccontato.

Ora però basta, tutte queste parole vi sembreranno straordinariamente inutili quando arriverà il battito cardiaco e la magia, ancora una volta si compirà. Tanti auguri Dark Side, buon ascolto!

Grazie


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