New York Diaries – Seconda puntata
Domenica mattina. Harlem.
Ho capito perché Mark Twain sulla zattera assieme a Huck Finn ci ha messo Jim. Hanno l’umanità stretta all’anima, non dipende dalla pelle, non la fanno passare per la pelle, non la toccano con la pelle.
È per questo che noi non ce l’abbiamo.
È per questo che però noi non ne possiamo fare a meno, e ne sentiamo la mancanza. Ma non lo diciamo. Almeno, non sempre.
Ricordo l’ultima volta che sono stato qui. Con te.
Non dovevo portarti via da Manhattan. Non dopo la luce dei tuoi occhi quando hai visto i bambini cantare Jesus is a friend of mine, oltre le lacrime, oltre ogni cosa. Erano occhi che guardavano. Occhi che imparavano. Occhi che aspetto di rivedere, per imparare anche io.
Anche stavolta i bambini hanno cantato quel salmo, anche questa volta erano timidi, hanno sbagliato, ma hanno sorriso e hanno continuato, magari con le parole sbagliate, ma con le note giuste; sentivo che volevano essere lì, e sentivo che anche chi era seduto li voleva veramente lì. Hanno il senso di appartenenza. Hanno il giusto senso dell’ospitalità. Anche questa volta alla fine hanno chiesto a tutti gli ospiti of all the world di alzarsi e hanno applaudito. E hanno ringraziato. E quando ce ne siamo andati loro hanno ripreso. Questa volta solo loro. Uniti.
Non mi era mai successo, e si che di messe le suore, durante la scuola, me ne hanno fatte vedere.
Durante la messa ad Harlem la musica non cessa mai, neanche quando vengono letti i nomi dei deceduti durante la settimana, ad ognuno una nota.
L’umanità, la loro, ha ritmo, armonia melodia.
Ho sorriso.
Ho sorriso anche perché il pianista pensava di essere nella band di James Brown.
Il soul è nato qui, o almeno qui lo hanno fatto meglio di tutti. 125esima strada. Apollo Theater. Ella Fitzgerald, James Brown, Aretha Franklin, Marvin Gaye e ancora, ma ancora tanti.
Peace. Brotherhood. Grace. Hope. Salvation. Light.
Ritorno sulla quinta. A cercarti. E mi passa il sorriso. Vagabondo. Randagio.
New York sembra fatta su misura per starti larga.
C’è sempre troppo spazio, che è difficile coprire da solo. Almeno dopo che prima lo avevo coperto con te.
A Times Square incrociando la Broadway cominci a confonderti. Non capisci più se lo spettacolo è nei teatri o nella strada. Un nuovo servizio di pullman chiamato The Ride gira per la città, ha i posti a sedere come una platea rivolti verso l’esterno. E tu che cammini ti senti come su un palco. Ma non senti il bisogno di recitare. In fondo stai già recitando.
E ti scazza recitare la parte di quello che è stato lasciato.
In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes diceva ormai un po’ di anni fa Andy Warhol, ma mi sa che ha mancato di precisione, perché se questo è il futuro America Eagle Outfiters ti promette solo quindici secondi di celebrità, tu entri nel negozio, ti fanno una foto e poi ti proiettano fuori su un maxi schermo, sempre a Times Square. 15 secondi. Sembra facile, ma è un gioco duro, perché dall’altro lato Forever 21 ti proietta su un altro schermo mentre te ne stai sulla piazza, non hai neanche bisogno di entrare nel negozio, e poi una ragazza compare nello schermo e ti saluta, ti indica, ti prende come se fosse King Kong, con un po’ di peli in meno, e un po’ di altre cose in più, e ti sbatte su un pullman che sta passando vicino Westminster, Londra. Questo Andy Warhol non c’è l’aveva detto.
The Ride, American eagle outfiters, Forever 21 Sei sicuro che hai ancora voglia di andare a vedere Mamma mia o il prossimo film in 3D?
È notte, un’altra senza di te. Un’altra ad offrire birra. E a spingere un carrello sulla Quinta con una batteria dentro. Eddy mi racconta della sua te.
Ti amo, davvero.
Ma spero di non finire mai a suonare da solo la batteria a Times Square. Piuttosto a mangiare brioches davanti a Tiffany.
Frank Sinatra aveva il raffreddore.
Anche io.
In questa Manhattan che è un cut-up di vite.