New York Diaries – Prima puntata
Quelle mele sono troppo rosse. Questo caffè americano è troppo Tall.
E tu sei così bella.
Quei taxi vanno troppo veloci. Questi grattacieli sono troppo grattacieli.
E tu sei così bella.
E tu sei così bella.
E tu sei così bella da ripeterlo.
Da ripeterlo.
Da godere solo nel poterlo dire.
Già averti visto. Che fa la differenza in questa vita. Per me.
Al posto del Fillmore East ora c’è una banca. Triste. Ancora più triste.
Lì una volta Jim Morrison giocava a rimpiattino con l’alcool. Scopandosi tutto.
Proprio tutto. Lì gli Who ci hanno suonato per la prima volta Tommy.
Lì gli Allaman Borthers ci hanno improvvisato così tanto che ti gira ancora la testa a passarci lì davanti, e non è solo per la ragazza coi tatuaggi e i pantaloni jazz fusion tra una mucca e una tigre che stava alla casa al Morrison hotel, lì dove prima c’era il CBGB è ora c’è un negozio/mostra di foto rock.
Sulla parete in fondo due foto. Una con George Harrison e Pattie Boyd, l’altra con Eric Clapton
da solo. Tutte e due autografate da Pattie. Non è sicuramente morto di simpatia l’autore. Costo? Troppo.
Scambieresti mai la tua chitarra per una come Pattie Boyd?
A vederla in foto, bionda con occhi penetranti, diresti di si, ma poi pensi che quei due nella foto su di lei ci hanno scritto Something e Layla e allora forse…
E comunque tu sei più bella.
Queste luci hanno proprio tutto della luce, sono così simili alla luce che ti ci puoi lustrare gli occhi. Altro che stelle. I sogni qui sono in vetrina. La porta è scorrevole.
E tu sei così bella.
Divido un tavolino con una che neanche alla lontana ti assomiglia, lei frappuccino, computer contro computer. Muffin contro Donuts.
Chissà che sta scrivendo lei? E se sta anche lei scrivendo di me?
Starà forse dicendo che anche io faccio cagare?
Ma tu sei troppo bella.
Da arredarci una casa. Comprata così al volo, in questa Manhattan di gente che va in giro in pantaloncini corto e cappotto. Che sono arrivato con Il Woolrich da spedizione polare e il taxista mi ha preso le valigie in maglietta a maniche corte.
Neanche superato il Bronx e già stava chiamando gli amici in India raccontandogli di aver caricato il cugino scemo di Totò.
Ti aspetto all’uscita di ogni negozio, so che da qualche parte ci sei. So che prima o poi ci incroceremo. Dovessi girare tutta la vita. Dovessi consumare il fiato. So che accarezzerò il tuo seno ancora una volta. So che cercheremo insieme la canzone giusta per questa città. So che mi proporrai Gershwin, e so già che io rilancerò con i Beastie Boys. Ti piacciono gli Strokes, e io ti annoio con Patti Smith, ma è solo perché la tua voce che mi leggeva Rimbaud ha la stessa forma del tuo corpo nudo. Mi manca. La tua voce. Il tuo corpo. Un po’ meno Rimbaud.
Per correre a Central Park adesso mi sento a mio agio con Suburbs degli Arcade Fire.
Ma dove sei per potertelo dire?
Dove ti trovo per raccontarti di uno scantinato a St Marks place pieno di libri usati, quelli dalle pagine dal colore di tutte le mani che lo hanno toccato.
Di foto erotiche e dei poster psichedelici?
Dove devo venire a prenderti per farti vedere la foto di Gay Talese alla Strand Bookstore in Union Square? Ho voglia di leggerti i suoi articoli su New York e poi farci una foto nel Greenwich Village come Bob e Suzie, sarebbe un giusto omaggio, a lei che è morta pochi giorni fa.
E già sera. I grattacieli inganno, le luci, almeno un po’, ti prendono per il culo, è la notte la scopri che è già arrivata.
Qui dove ora sono seduto la birra te la servono in due bicchieri piccoli, red or dark. E non serve che tu gli dici che la vuoi piccola, tanto basta che mi guardino in faccia per capire che stavo solo scherzando.
Il mio tavolo va avanti di coppie di bicchieri, di persone che si siedono, che si alzano, che si fanno foto, che si scambiano baci, che consultano una cartina, che tifano per il basket in tv, che si abbracciano e che ordinano un altro giro.
Questo è il McSorley’s Old Ale House, il più vecchio bar di New York. Almeno così dicono. Di sicuro c’è solo che tu non eri ancora nato che lì già spillavano birra. Di sicuro c’è che non ho smesso di cercarti.
Fine prima puntata