Neurosi delle 7 e 47 – Ennio Speranza | Gabriele Guidi
Le 4.48 è l’ora in cui si ha la maggiore attrazione verso il suicidio, o almeno secondo le statistiche; è quell’ora in cui l’identità a poco a poco si sfalda per disperdersi in una condizione indistinta tra sanità e follia. L’aveva capito sulla sua pelle Sarah Kane, il cui ultimo testo, Psicosi delle 4.48 esplora proprio questa fragile zona di confine attraverso frammenti lirici che uniscono dichiarazioni di amore disperato, stralci di poesia ed elenchi di sintomi e farmaci, il tutto per convergere in una riflessione spietata e lucidissima sul suicidio. E non è un caso che proprio l’autrice sia stata scelta come omaggio a Neurosi delle 7 e 47, spettacolo inserito all’interno del Festival dell’Emozione della stagione del Teatro Patologico. La struttura, fondata da Dario D’Ambrosi, da anni porta avanti un lavoro lodevole e coraggioso di integrazione tra teatro e disabilità, fisica e mentale.
Si viene accolti in un grande complesso dove a fare da protagonista è un’atmosfera di festa nutrita da tanti sorrisi; c’è un pubblico speciale, diverso da quello dei soliti circuiti del centro e sembra di respirare un’aria più sincera, emozionante. Nell’ampia sala del teatro di Roma Nord, il protagonista innominato di Neurosi (Gabriele Sabatini) aspetta l’autobus n. 17, e non sembra un numero casuale visto che non gliene va bene una: ha un lavoro frustrante, la moglie lo tradisce con il fratello e tenta quindi di trovare una misera felicità fisica con le ragazze di Internet. L’attesa diventa così il pretesto per un’intima confessione al pubblico, il quale si trova davanti agli occhi un piccolo uomo mediocre e codardo, la cui vita è fatta di coazione a ripetere, che si nasconde dai sentimenti forti – prima di tutti l’amore – per paura della sofferenza.
Forse è tutto un delirio, forse è solo un sogno di una mente disturbata: fatto sta che lautobus ancora non passa. La drammaturgia essenziale di Ennio Speranza, se a tratti un po’ didascalica, è compensata dall’interpretazione convincente di Sabatini e dalla genuinità degli intenti di far emergere il ritratto dell’ uomo contemporaneo alienato e depresso, privo ormai di un’identità definita, tanto che essere è non essere’. L’unica soluzione allora è il suicidio; ma togliersi la vita, paradossalmente, implica una grande energia vitale e se non la si possiede, allora si è condannati a una vita tiepida. Ora, finalmente, l’autobus si ferma placido davanti al protagonista, ma lui decide di non prenderlo, forse ultimo gesto di ribellione verso se stesso, un disperato tentativo di cambiare vita.
Lontana da boriosi accademismi, intellettualismi sterili e pretenziosi, la lezione del Teatro Patologico risiede nella consapevolezza che la malattia non è un ostacolo all’espressione artistica ma, al contrario, una risorsa fertile per esplorare i lati più celati e perturbanti dell’animo umano che la società borghese ha nascosto sotto il proprio perbenismo: il teatro diventa così lo strumento fondamentale per esprimere la follia nei suoi aspetti più drammatici, ironici, ma soprattutto commoventi.