Nella gabbia delle proprie paure
All'Argot debutta 'Nessun luogo è lontano' di Rappa
Abituati come siamo a doverci per forza sorprendere o, quanto meno, a dover faticare almeno un po’ per capire ciò che accade sulla scena (come nella vita), siamo ancora in grado di apprezzare narrazioni dall’intreccio “tradizionale” (presentazione variabili climax ricomposizione di equilibrio) e tanto di lieto fine?
Se il teatro come afferma in un suo post Sergio Lo Gatto non deve fermarsi alla presentazione “lacaniana” della realtà, ma occorre che si assuma la responsabilità di fenderla con un ragionamento che resti aperto agli sguardi del pubblico; una narrazione in piano-sequenza di emozioni come la rabbia e il livore che si generano per cortocircuiti d’orgoglio può essere allora interessante quanto un’ermetica (o simbolica) rappresentazione delle medesime?
Con questi interrogativi aperti, proviamo a osservare Nessun luogo è lontano (Argot Produzioni) scritto e diretto da Giampiero Rappa, dopo il debutto dello scorso venerdì.
Ci ritroviamo in una baita, una sorta di ritiro emotivo per l’orgoglio ferito dell’ex- scrittore di successo Mario Capaldini (Giampiero Rappa): nel suo eremo costruito con quell’alternanza di luoghi di qua (caldi)/luoghi di là (freddi), di matrice eduardiana (scene Francesco Ghisu) l’uomo (si) sopravvive senza più alcun rapporto umano, riscaldandosi davanti al caminetto, con l’unica compagnia di una vecchia radio a funzionare come finestra su quel mondo da cui si è congedato dopo aver rifiutato un premio letterario.
Subito interviene la prima variabile: Anna (Valentina Cenni) è una reporter di guerra che si trova a dover sostituire una collega per l’intervista esclusiva all’autore di Intorno al vuoto (un titolo che è tutto un programma). Tra i due le cose non sembrano funzionare: il guscio di cinismo e disillusione di Capaldini non sembra poter cedere alle sortite della donna, in apparenza per nulla intimorita dal caratteraccio dell’uomo.
Dopo aver tentato in tutti i modi di portare allo scoperto le debolezze del suo interlocutore, la giornalista va via stizzita. Interviene allora la seconda variabile: Ronny (Giuseppe Tantillo) è il nipote dello scrittore, non si vedono da molti anni (anche i rapporti famigliari sono fratturati), ma fra loro c’è ancora una certa complicità. Il ragazzo sembra essere una proiezione del giovane Capaldini: è uno scrittore con evidenti difficoltà nei rapporti umani, con problemi di gestione della rabbia e con insicurezze che sfociano in incubi ricorrenti. La sovrapposizione fra i due è ancora più evidente quando il giovane afferma di non credere più nella vita, mandando in bestia quello zio che ormai riesce a relazionarsi solo con le galline nel pollaio e che quindi, evidentemente, cela il medesimo stato d’animo.
Rappa disegna una gabbia di paure, di insicurezza che scaturiscono dalla difficoltà di gestire i rapporti con gli altri e, quindi, con sé stessi. Le musiche di Stefano Bollani pongono l’accento sulle emozioni: percussioni e intermezzi di pianoforte servono come dispositivi di raccordo, ma sottolineano altresì la vera protagonista che si palesa in tutti i personaggi in scena la rabbia.
La solitudine di Capaldini, i disagi del giovane nipote, il desiderio di affermazione della giornalista finiranno per intrecciarsi e poi sciogliersi in un abbraccio che riconcilierà tutti con l’unica verità possibile: l’uomo è ancora disperatamente un animale sociale.
E allora torniamo al punto di partenza. Nessun posto è lontano riesce a innescare l’immedesimazione e il riverbero emozionale, diverso per ogni spettatore, nonostante il canonico (forse banale?) dipanarsi dell’intreccio? La scrittura lineare a tratti brillante (che talvolta non dice per dire tutto), a tratti forse più debole di Rappa riesce a piantare il seme del dubbio là dove l’orgoglio finisce per otturare le vie di fuga dal dolore?
Forse, ciò che resta è soprattutto la consapevolezza della umanissima necessità di poter credere in un possibile lieto fine.
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