Nelle pieghe di un segreto – Chiara Macconi
Resta sempre su qualche albero un’ultima foglia, aggrappata al suo ramo per il miracolo di un’inesplicabile resistenza, e tutte le mattine, passando, le diamo un addio perché temiamo di non trovarla più il giorno seguente. […] Resterà lì malgrado tutto? Lentamente, con la famigliarità dell’inevitabile, cominciamo a dimenticare la foglia fedele. Una mattina qualsiasi non alziamo la testa per cercarla, né ci congediamo da lei per sempre. […] E molti giorni dopo, quasi senza pensarci, gettiamo uno sguardo disattento che ci rivela la sua assenza […].
Oggi, a rileggere le parole di Yolanda Oreamuno, ci vengono in mente alcune donne che subiscono esperienze violente e che consideriamo sempre lì, a resistere come foglie al vento. Finché la loro storia non cade, perché qualcuno ne accelera violentemente la fine.
Chiara Macconi, nel volume Nelle pieghe di un segreto(Armando Editore, 2016) narra la storia di Yolanda Oreamuno, conosciuta semplicemente come YO. Un nomignolo che si pronuncia come il primo pronome personale che le è stato negato per tutta la sua brevissima vita. È stata un simbolo di assertività, una foglia aggrappata al ramo dell’esistenza e turbata da privazioni ingiustificabili e inaccettabili, come quella del figlio Sergio.
YO nasce l’8 aprile 1916 in Costa Rica, sotto il segno dell’ariete. Perde a soli nove mesi il padre, così viene allevata dalla madre, dalla nonna materna e dalle zie.
Studia al Colegio Superior de Senoritas, dove matura le trame del femminismo rendendole la sceneggiatura della propria vita. Lotta e sciopera per l’uguaglianza. Entra nei circuiti culturali della sua epoca e prova a farsi strada con il suo talento di scrittrice volto alla coscienza di genere. Ne è convinta: non vi è nulla che vieti alle donne di essere compagne e amiche dell’uomo, ma perché essere loro nemiche e soprattutto schiave?
Decide di affrontare il suo futuro con coraggio anche quando il risultato è doloroso.
Sposa per amore un diplomatico, che però lavora di uncinetto mentendole sulla sua omosessualità. YO ha continuato a non capirne il senso, anche quando il marito decide di spararsi, sulla tomba di famiglia, per porre fine a una vita fittizia. Dopo questo episodio, vive per un po’ di tempo tra sensi di colpa terribili. Le viene negato l’accesso alla verità, un po’ come era capitato quando era piccola rispetto alla morte del padre. Jorge, il marito, non aveva neppure lasciato due righe di addio, per congedarla dall’incredulità.
Yolanda, a questo punto, non ha altra scelta se non quella di far ritorno a San José, sperando di trovare finalmente pace. Ma soprattutto avrebbe voluto riprendere la parola, mettere da parte il silenzio dopo lo sparo, recuperare le indimenticabili amicizie del luogo natio.
Quando tenta di sistemare le maglie della sua giovane esistenza, incontra Oscar, con il quale deciderà di sposarsi. Dalla loro unione nascerà, nel 1942, Sergio.
YO è convinta di essere attrezzata per il nuovo “viaggio coniugale”, come fa intuire a Lilia Ramos, di professione psicologa e di natura migliore amica.
Oreamuno era una donna inquieta e anticonformista, brillante, capace e risoluta. Riteneva che le donne fossero perfettamente in grado di pensare, giudicare e ragionare nella stessa proporzione degli uomini. La donna, in alcuni casi, era riuscita ad affrancarsi economicamente dall’uomo, ma il pensiero era rimasto quasi vincolato al ragionamento maschile. È come se la donna non sapesse di se stessa più di quello che l’uomo le aveva insegnato. YO era certa: poche erano le donne che, senza paura, sentivano il diritto di formulare il proprio pensiero, di affermarlo in contesti familiari e sociali. E di ciò parlò anche in numerosi racconti, come ad esempio in Le maree arrivano di notte.
E proprio per questa sua indole, di rado compresa, iniziano ad avviarsi le prime scaramucce con il secondo marito, che si trasformano ben presto in squarci tra loro. Per Oscar, Yolanda non aveva diritto ad avere una voce, di rispondere alla propria vita, alla sua creatività che la spingeva a scrivere. YO non voleva molto da lui, se non l’essenziale e inalienabile diritto di ogni essere umano: essere riconosciuta come persona, come pensante, come autonoma. A lei non interessava tenere acceso il focolare, perché sentiva che quell’unico ruolo patriarcale voluto per lei, come per tutte le altre donne, era un vestito cucito male, stretto, inappropriato, da strappare.
Nessuna poteva essere confinata alla casa, magari imbavagliata, spinta al silenzio, alla dipendenza, quasi addomesticata come un animale da domare e rendere docile. Era ciò che Oscar le rimproverava: la sua incapacità di “restare al suo posto”, senza comprendere che non era stata lei a scegliere quel posto.
Lei reclama per sé il diritto di restare viva, brillante, senza imposizioni. L’unica cosa che accetta e con estremo amore, è il suo legame forte, intenso e irripetibile con l’adorato figlio Sergio. Comprende, molto presto, che la sua bellezza, la sua vivacità, il suo carattere diventano la sua condanna e che, forse, la porteranno lontana dal piccolo. Pur con qualche tentativo di resistenza, YO comprende che non può accettare di assumere le sembianze di una natura morta in un quadro, o di un vaso con fiori secchi e impolverati. Non può sentire odore di polvere nella sua vita.
L’esaurimento affettivo arriva presto, come una grandine a bucare la vita. La sua stabilità viene minata, ogni giorno di dieci passi. In modo così inesorabile, che si somatizza in un malessere che la porterà a scomparire lentamente. L’assonanza tra matrimonio e infelicità diventa quasi violenta.
Quelle ferite, inflitte nel silenzio, non si sarebbero mai rimarginate.
Così, il piccolo Sergio diviene per Yolanda l’unico balsamo sul cuore e sul corpo, trasformandosi però ben presto nell’oggetto da contendere con Oscar. L’amica Lilia, ma anche Eunice Odio e molte altre provano ad alleviare la sofferenza di Yolanda, sostenendola in un percorso tortuoso. Eunice prova a spostare il baricentro dell’attenzione di YO dal figlio alla scrittura. Ma il successo è perlopiù scarso. L’assenza di Sergio ha quasi alienato Yolanda che non accetta l’ingiustizia della separazione, non può accettare di perdere il figlio per acquisire la libertà di vivere. Alterna sprazzi di serenità a dolore profondo per una punizione che riceve ingiustamente. Un dolore-tagliola che la tiene stretta e la indebolisce.
Per gli ambienti culturali YO ormai è un personaggio dagli squilibri spirituali e sentimentali quasi indomabili, come la sua voglia di libertà e la sua bellezza. E ciò, nonostante i tentativi, anche positivi, di farsi strada nel mondo della letteratura, attraverso proprie pubblicazioni e recensioni alle sue opere. Ma il dolore è ormai uno stigma che inizia a sanguinare ancora di più nel 1945, quando divorzia da Oscar e finiscono tutti i tentativi di rivalsa.
Il suo corpo inizia a cedere, quasi a pezzi, come un prezioso e antico palazzo che perde calcinacci e bellezza. Inizia a preferire il letto al movimento, il silenzio alla chiassosità delle conversazioni, la riservatezza ai circoli culturali. Si lascia andare come quella foglia al vento della quale ha parlato, come se nulla – dopo Sergio e senza di lui – potesse avere un senso.
Seppur sprazzi di bellezza restano nelle pieghe del suo viso, il corpo decide di separarsi dalla mente. Aveva 33 anni e stava lottando, con forza impari, contro la sua stessa fine. Il suo malessere di vita è definito “psicogeno”. L’amica Lilia prova a curare quella foglia in procinto di cadere.
Le parole di YO forti, quasi devastanti: “Abbiamo segrete fessure dove si annida la tristezza, la pena, il risentimento, la paura sconosciute ad altri. E una volta lì non è possibile sradicare nessuno di questi sentimenti che hanno preso possesso dell’anima”.
Già prima, nel 1946, quando la malattia fu evidente alla stessa YO, la sua capacità lavorativa subisce un arresto, conseguentemente anche la sua capacità di guadagnarsi da vivere.
Dal 1956 accetta l’ospitalità dei coniugi Reyes Meza e Maria Luisa Algarra che avevano deciso di prendersi cura di lei e un po’ anche della sua fragilità. Maria Luisa scrive di lei “Sento in lei una profonda anemia spirituale che la corrode”, chiarendo definitivamente che quel malessere fisico aveva una ragione psicosomatica. Era stata proprio lei a definire, in modo chiaro e inequivocabile, la scelta di Yolanda: lasciarsi andare, perdersi, dissolversi. A giugno del 1956, quando il corpo non riesce più ad abbandonare il letto, la sua mente e il suo sguardo salpano per altri lidi, per sempre.
L’8 luglio 1956 il silenzio inghiotte nella bocca buia della morte Yolanda Oreamuno. Nessun gemito, nessun sospiro. Una domenica qualsiasi, nell’attesa che il bagno fosse caldo, che Eunice le portasse la colazione o il brodo, YO inclina la testa e si lascia andare per sempre, come se non avesse più forza di allungare il braccio verso la vita, lasciando che con lei morissero anche la ribellione, la forza, la bellezza, la gioia di vivere.
La tagliola sulla sua esistenza è sotto gli occhi di tutti gli amici quando la cassa grigia viene lasciata cadere sotto terra. I convenuti al funerale, sotto una silenziosa pioggia, comprendono quel terribile punto di non ritorno.
Chiara Macconi, attraverso una scrittura e una narrazione quasi poetica, rappresenta il dolore di una donna, di una femminista, che non aveva chiesto nulla di impossibile o indicibile, se non quello di avere la libertà inviolabile di realizzare la propria vita secondo forme stabilite da se stessa e non da altri. E ben fa la casa editrice a scegliere di ospitare la storia di una donna che spesso non ha avuto il riconoscimento meritato.
Il passaggio della nostra vita, ci dice infine Macconi, “è una variabile erratica, ma sappiamo che resteremo solo nel ricordo di chi ci ama, che continua il cammino portando con sé anche la nostra storia, noi e chi ci ha preceduto e fatto da testimone”. Ciò affinché ciascuna donna dopo Yolanda possa portare sulle spalle, senza violenze, il vessillo della propria libertà, senza che qualcuno blocchi il vento della bandiera della propria esistenza.