Nel mondo a venire – Ben Lerner
Se di New York Le Corbusier ne parlava come di una catastrofe, a scriverne non si può quindi non correre che il rischio di sfiorarla, riuscendo anche, in alcuni casi, a realizzarla per davvero, producendo così o romanzi epocali o prodotti di consumo davvero scarsi.
L’ultimo romanzo di Ben Lerner, Nel mondo a venire, appartiene alla prima categoria, quella della bella catastrofe, sempre citando l’architetto francese. Non solo perché due catastrofi, una sfiorata, una invece purtroppo davvero accaduta, aprono e chiudono il romanzo, i due uragani, Irene e Sandy; ma soprattutto per l’innovativo intreccio di forma e contenuto, che sembra segnare un nuovo orizzonte per il romanzo stesso.
È la storia di uno scrittore a cui, in seguito a un racconto pubblicato sul New Yorker (anche questo parte del romanzo), viene data una cospicua somma per scrivere il secondo romanzo, dopo che il primo è stato un successo di critica. Intanto, ma è un intanto che racchiude un universo, tra le altre cose gli viene diagnosticata una malformazione cardiaca, la migliore amica gli chiede un figlio, ma senza ricorrere a metodi tradizionali e aiuta un bambino latino a scrivere un breve trattato sui dinosauri.
All’apparenza niente di nuovo, se non fosse che, questo secondo romanzo che il protagonista deve scrivere è proprio quello che stiamo leggendo, oltre che la storia stessa dello scrittore. Non si tratta però solo di un romanzo sulla nascita di un romanzo, quello che piano piano la scrittura porta alla luce è come la finzione, cioè la proiezione delle molteplici possibilità delle nostre azioni, sia passate che future, agisca sulla nostra percezione del presente in maniera molto più prepotente di quanto pensiamo.
Come tutti i grandi romanzi che hanno sperimentato sulla forma anche Nel mondo a venire vive una relazione importante con il tessuto urbano. È proprio sulla vulnerabile griglia di Manhattan di cui il protagonista vuole esserne il nuovo Whitman (Ben Lerner, come il protagonista, è innanzitutto un poeta) che il romanzo imbastisce la sua riflessione sul tempo, una passeggiata continua attraverso la città, luoghi imprevisti e posti abitudinari diventano soglie per entrare in altre storie, aneddoti, reminescenze del passato, speculazioni filosofiche. New York diventa lo spazio dove si consuma un’incessante gioco di compromessi mai rassegnati tra un ideale di sé e del mondo e quello che è la realtà effettiva.
Un romanzo che sa davvero di contemporaneo nell’accezione intesa da Agamben: porta costantemente, come l’ultima meravigliosa parte dimostra, lo sguardo proiettato nel suo tempo per percepirne non le luci, ma il buio.