“Ma ch’è stato?” “Niénte, niénte”
A volte basta un semplice scambio di battute a dare la misura di un trauma: parole banali, smangiate di dolce omertà, pronunciate per quieto vivere, che tuttavia agiscono come una piccola perdita, che poco a poco si espande, indebolisce i legami e spacca perfino le tradizioni più granitiche. Per il suo Natale in Casa Cupiello, Fausto Russo Alesi (regista, adattatore, interprete unico) decide di partire proprio da qui, dall’usura, che è consumo di forme e abuso di silenzi.
Sul palco dell’Argentina, sospeso a un metro da terra, un pavimento lacero, grezzo, inclinato (scene Marco Rossi); sembra il suolo di una strage, unico resto di una stanza esplosa, o meglio, di una famiglia implosa. Vagando tra le macerie e gli oggetti sparsi di questo Natale disertato, infatti, l’artista palermitano viene ad abitare la spoglia scena quasi fosse un fantasma, guardiano di memorie, che torna a dar voce, incarnandoli uno a uno, a tutti i personaggi del celebre dramma eduardiano.
Una lettura curiosa quella presentata da Russo Alesi che, pur mantenendo semi inalterato il testo e sovrapponendo su di sé le diverse voci di casa Cupiello, propende più verso l’evocazione di un’atmosfera che di una rilettura drammaturgica. E si tratta appunto dell’evocazione di un vuoto, di un non detto, di quell’ostinato “niénte, niénte” che impaluda e – come avrebbe detto De Filippo – gela; la comicità si stempera e si rarefa, le voci si dilatano in un cigolio sempre più inquietante e l’impossibile presepe famigliare di Luca Cupiello diventa un buco che non si può riparare, in cui, anzi, ogni parola e ogni tentativo di impronunciabile riunione finisce per sprofondare.
Il contrasto tra infestazione e vuoto tuttavia, nella stratificazione progressiva dei personaggi, perde poco a poco di efficacia: la differenziazione minima dei “parienti” (una posa plastica, una certa pronuncia, o addirittura un Nennillo che diventa femminiello) non trovando uno sviluppo drammaturgico che sia davvero funzionale rischia di diventare una tipizzazione ingombrante, svuotata di quell’ironia e di quel grottesco che l’impostazione globale invece vorrebbero, con arguzia e sensibilità, suggerire.
Scansando in ogni modo un confronto con la recente e discussa messa in scena di Latella (che attirerebbe in maniera inversamente proporzionale lettori e riflessioni), non si può fare a meno tuttavia di chiedersi se dopo un mese di rappresentazioni fosse opportuno, a soli due giorni di distanza dall’ultima replica, ospitare una nuova produzione (Piccolo di Milano) dello spettacolo eduardiano: non si induce forse così a facili e poco costruttivi paragoni che spingono a prendere inutili posizioni e a svalutare l’interessante diversità (al di là dell’effettiva riuscita) delle due rappresentazioni?
Mentre lasciamo l’Argentina con qualche serio dubbio, il pubblico applaude entusiasta e ripetutamente all’intensa prova dell’artista (due ore senza intervallo), dopo aver – chissà perché, poi – riso tanto.
“Ma ch’è stato?” “Niénte, niénte, uno che va sfruculiando”
Teatro Argentina, Roma – 3 gennaio 2015