Il tramonto dell’imperatore dei sensi
La morte di Nagisa Oshima, regista che è stato, da solo, unavanguardia
Una delle solite passeggiate sulla Croisette di Cannes per ammazzare il tempo, due anni fa. Sono con amici ed altri giornalisti, tra una parola e l’altra torniamo indietro nel tempo, fino ai primi anni Sessanta. La storia narra che proprio su quella spiaggia, un giorno come quello, scoppiò un diverbio molto acceso tra Ozu e Oshima, il vecchio maestro oramai quasi morente contro il giovane leone pronto a distruggere e ricostruire quel cinema. Oshima incalzava (lavorava a film dialettici, mossi, forzati a dispetto del formalismo immobile e della lacerante semplicità ozuiana) mentre in un angolo Ozu taceva fino a quando ad un certo punto, sottovoce, affermò che fare il regista è solamente: “avere un potere quasi assoluto su un quasi nulla, l’inquadratura”.
L’ultimo scacco del grande vecchio al giovane rivoluzionario che in quel frangente ammutolì. Tutte storie forse, ma il tempo comunque passa e chissà cosa avrà pensato lo stesso Oshima pochi giorni fa, quando quel suo potere quasi assoluto lo scortava tranquillamente verso il quasi nulla della morte. Il grande vecchio ora è lui, come se quel destino fosse già scritto su quella sabbia.
Portato via a 80 anni da una polmonite a Fujisawa, vicino Tokyo, dopo anni di malattia e di silenzio desolato. È morto Nagisa Oshima, uno dei più grandi cineasti giapponesi del dopoguerra, dalla densissima filmografia che mette insieme affreschi storici, libelli politici, documentari e ardite sperimentazioni d’avanguardia. Poi il silenzio. La critica francese, che lo scoprì per prima e lo accolse come un maestro quando decise di trasferirsi a Parigi, lo celebra oggi come il Godard del Sol Levante, come lo fu Glauber Rocha per tutta l’America latina. E in effetti il segno estetico della Nouvelle Vague francese fu fortissimo in questo ragazzo ribelle, imbevuto di idee radicali fin dall’università, lasciata per un posto di assistente alla regia negli studi Shochiku alla metà degli Anni Cinquanta.
Nagisa Oshima è stato, da solo, un’avanguardia. Non soltanto nel senso di sperimentatore e precursore di novità espressive, ma anche riguardo ad audacia tematica (il suo pregio più riconosciuto) e come rappresentante di un cinema orientale ancora in buona parte sconosciuto al resto del mondo. Akira Kurosawa, Kon Ichikawa e Yasujiro Ozu erano nomi già noti e apprezzati fuori dai loro confini nazionali, e non solo. Ma con Oshima, e soprattutto con l’esplosione del maledetto Ecco l’impero dei sensi (1976) a tutte le latitudini del pianeta, il cinema giapponese acquisì una visibilità fino a quel momento inconcepibile. Quella messa in scena così estrema ed esibita con sana e totale spontaneità, appariva di per sé un’inaudita sfida e conquista. Il film di Oshima, riempì sale a luci rosse per anni, dato in pasto a un pubblico a cui poco interessava se poi si trattasse di uno degli studi più intensi e appassionati su Eros e Thanatos mai visto al cinema fino a quel momento.
Derive. Il quartiere dell’amore e della speranza, Racconto crudele della giovinezza, Il cimitero del sole, splendide schegge impazzite degli esordi, rottura senza possibile riconciliazione. Diretto, sia sul versante politico (certi suoi film degli esordi come l’immenso Notte e nebbia del Giappone, 1960, film tra i più originali del tempo e precursore di molto cinema formale/militante degli anni successivi) sia sociologico (La cerimonia, 1971, meraviglioso atto d’accusa contro chiusura, tradizionalismo e asfissia sociale dell’istituto familiare giapponese), sia, più tardi, erotico-istintivo (Ecco l’impero dei sensi e L’impero della passione, 1978, opera premiata per la regia a Cannes, ma assai meno visivamente provocatoria).
Oltre ai ripetuti attacchi alle calcificazioni antropologiche nazionali, all’ipocrita repressione degli istinti e alle conseguenti perversioni, quel che in patria si perdonava meno a Oshima era l’uso aggressivo del grottesco, sottile e significativo in L’impiccagione (1968) e La cerimonia, sposato incondizionatamente in uno dei suoi film meno fortunati, Max amore mio (1986), girato in Francia durante il suo esilio europeo su ispirazioni bunueliane, non a caso sceneggiato da Jean-Claude Carrière.
Forse un solo altro dei suoi film contende a Ecco l’impero dei sensi il primato di popolarità mondiale: quel Furyo (1983) animato da un cast d’attori originale e interessante, le due rockstar David Bowie e Ryuichi Sakamoto, il buon britannico Tom Conti e l’ancora sconosciuto (da noi) Beat Takeshi Kitano. Sulle note di un famosissimo commento musicale a opera dello stesso Sakamoto, in questa occasione Oshima appiattisce un po’ la potenza visiva del suo cinema su un gusto anonimo e internazionale, ma la forza provocatoria del suo linguaggio a diretto contatto con l’istinto rivive pienamente nello scontro tra due culture e civiltà, in cui, come sempre, percorrono sotterranee e violente tensioni omosessuali. Un discorso mai concluso, che trova un’ulteriore analisi nella sua splendida opera di congedo, Tabù Gohatto (1999), di nuovo con Kitano protagonista.
Non è stato solo un genio del cinema del dopoguerra, il più importante regista giapponese dopo la generazione dei vecchi maestri. E non è stato solo, assieme a Glauber Rocha e a Jean-Luc Godard, uno dei maggiori teorici di un cinema sociale, politico, rivoluzionario, molto Nouvelle Vague, che oggi nessuno si sognerebbe più di fare. E’ stato, soprattutto, uno di quei pochissimi autori che ci hanno completamente aperto al mondo, che ci hanno spiazzato, segnando la nostra vita e che non riusciamo a non vedere senza emozionarci ogni volta che appaiono.
E’ stato un grande vecchio maestro, ha abitato la sua inquadratura, è stato il suo cinema. Un cinema discrepante, diffidente, sensuale, irato, militante, provocatorio, incazzato, giovane, libero. L’impossibilità di vedere la forza dei sensi, qualcosa che tutti avevamo (forse) dentro e che (forse) nessuno come lui seppe raccontare. Perché lui, a differenza di quasi tutti, il suo personalissimo ultimo film del mondo l’ha davvero girato.