Foto di scena ©Edoardo Agnoletti

Monticchiello 49: Il Paese che manca

Ovvero il teatro senza spettacolo

Finché si va a teatro è facile tenere le distanze: lì è lo spettacolo, qui siamo noi; fingiamo di non saperlo, sospendiamo la nostra incredulità, eppure inconsapevolmente ci ripariamo dietro quella linea d’ombra. Certo, a volte il confine scompare, e allora la finzione diventa arte – agisce in noi –, ma cosa accade quando la realtà sale sulla ribalta vestita di normalità?

È questa la sfida della piccola comunità senese di Monticchiello (poco più di 200 abitanti) da ormai quarantanove anni a questa parte, portare in scena il proprio dramma quotidiano senza tuttavia teatralizzarlo. Inevitabilmente, di fronte a un’operazione del genere le consuete categorie di giudizio traballano: come osservare un’opera che nega il suo stesso essere opera? Con quale lenti? E per scorgere cosa? Nella sua completa compenetrazione di artificio (esiste pur un testo) e normalità (gli abitanti sono attori di sé stessi), il Teatro povero si trasforma in rito religioso laico, introspezione sociale. Come dire, si esterna un sentimento collettivo latente e lo si espia “distruggendo” la drammaturgia, che attraverso la non-recitazione viene riportata alla quotidianità da cui era originata.

Al centro di questa 49^ edizione – Il paese che manca (a cura dello storico regista-capomastro Andrea Cresti) – ritorna il tema dello spopolamento urbano. È il compleanno del ragazzo più giovane del borgo: Gigino compie vent’anni. Un fatto di per sé irrilevante nella logica dei grandi numeri; peccato però che qui il passaggio dall’adolescenza all’età adulta segni lo scacco di una società: la crescita del ragazzo, di fatto, accelera la morte degli altri. E un centro che non riesce a rigenerarsi è condannato alla scomparsa.

Foto di scena ©Edoardo Agnoletti

Dal 25 luglio al 15 agosto la Piazza della Commenda di Monticchiello, allora, accoglie spettatori da tutta Italia per portare in scena l’“autodramma” (come lo definì Strehler) della propria gente. Tre generazioni si raccontano con acerba veracità, gesti semplici, sapori vernacolari, mescolando storie private e disagi collettivi (le poste che chiudono, le banche che mancano, il parroco che diserta). Ma se da un lato il paese affonda la lama nelle proprie debolezze conservative, dall’altro non manca di registrare lo smagliamento sociale dei ragazzi di oggi che “stanno vicini ma non insieme. Sempre a pasticciare con que’ maledetti aggeggi!”.

L’aspetto più curioso di questo appuntamento, però, va ricercato a nostro avviso proprio nella sua trasversalità socio-artistica: come reagire? È chiaro che non trattandosi di un “normale” spettacolo bisogna resistere al giudizio estetico, ma è altrettanto vero che l’implicazione commerciale (cioè il fatto che comunque si paghi un biglietto) può giustificare la tentazione della valutazione: come e per vedere cosa il pubblico investe il proprio denaro? Relegare la risposta alla storicità dell’evento, per quanto legittimo, non aiuta a risolvere l’interrogativo.

Foto di scena ©Edoardo Agnoletti

L’arte stimola dubbi (perciò visioni) che nella vita quotidiana non sempre scattano. D’altro canto, la comunità di Monticchiello dilata la propria dimensione quotidiana ma senza trasformarla in manifestazione artistica tout court. Lo scarto apparente che sembra dividere queste due realtà si colma allora nell’atto stesso dell’incontro; narrare e assistere diventano due forze complementari di un unico impulso: la testimonianza, restituita nella sua forma più genuina e diretta. Il teatro recupera così, in quel di Monticchiello, la sua vocazione originaria, offrendo una comunicazione che non ha bisogno di spettacolarizzazione.

Ecco insomma che questa frizione della risposta, della reazione, del giudizio ci insegna a essere più consapevoli della nostra fruizione dell’arte: cercavamo uno spettacolo, abbiamo trovato il teatro.

Ascolto consigliato

Monticchiello (SI) – 6 agosto 2015

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