Miniballetto n.1 – Francesca Pennini
Quando la spieghi la poesia diventa banale, meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta delle emozioni che può svelare la poesia ad un animo predisposto a comprenderla
così Pablo Neruda nel film Il postino rivolgendosi a Mario Ruoppolo ossia Massimo Troisi.
Perché partire da qui per una recensione di danza dal titolo così classico come Miniballetto n.1 di Francesca Pennini? Perché il suo senso, la sua direzione, il suo segno (corporeo) – al pari della poesia o della pittura – sono capaci di evocare, tracciare, immaginare ciò che le parole quotidiane banalmente fanno spesso terminare, chiudere, languire.
La danzatrice e coreografa emiliana nonché direttrice artistica di CollettivO CineticO – fucina di sperimentazione formativa che ha appena vinto il Premio Rete Critica 2014 come Miglior Compagnia -, con la drammaturgia di Angelo Pedroni, entra in un sistema frazionato su tre parti (da cui lei stessa sarà assente nella sezione centrale) e, partendo dall’unità essenziale e vitale del respiro, si allungherà verso corrispondenze come fossero nuovi punti cardinali per un linguaggio da ri-orientare.
Come su una pagina bianca o su un intonaco ancora umido, Francesca Pennini inizia a saggiare millimetricamente il suo corpo in un esercizio che scivola sulla tuta rossa attillata – contraddistinta dal numero uno – quasi fosse una domanda dai toni surrealisti: «Cosa essere tu?». Perché comunque il teatro e le arti performative sono, sì, mistero ma anche gioco, e la danzatrice inizia anche così: giocando, alludendo, illudendo, rompendo la cosiddetta quarta parete e rivolgendosi direttamente al pubblico.
La sinopia, l’abbozzo del disegno, continua, ma su un’altra probabilità compositiva: l’assenza della danzatrice sarà colmata da una macchina umana ipertecnologica – un drone – che danzerà sulle vertigini liriche di Bogna Sokorska in ultrareali Voci di Primavera (ascolta qui). Finalmente si solleva il piccolo monte di piume che era immobile sul palco fin dall’inizio e che ora pare respirare. Sembra quasi di poter vedere l’altra possibile faccia della medaglia di una coreografia di molti anni fa: quei cuscini pieni di elio (immaginati dal Andy Warhol) che si sollevavano per Rainforest all’interno di un classicismo totalmente disseccato e concepito dal performer Merce Cunningham (guarda qui).
In questo modo è possibile avvicinarsi verso il punto estremo, il momento sospeso dove tutto è possibile: Francesca Pennini, in un body nero, rientra e su una nota continua sempre più insistente, martellante, apre ad una danza che sembra una pennellata senza racconto e su cui calano le luci mentre il suo respiro è ancora in scena.
Ora può iniziare la poesia, la danza, l’affresco, ma sarebbe inutile e banale parlarne perché non potrebbe che essere una metafora, una cosa semplice, sì, ma «perché ci ha questo nome così complicato?»—chiedeva infatti il postino Mario Ruoppolo all’amico poeta.