Shots from "Mia Madre"

Mia madre – Nanni Moretti

C’è un affezione particolare che ci lega ai film di Nanni Moretti, perché ognuno di essi è lo sviluppo psicologico-emotivo di quello precedente. Da quella parabola sull’incapacità di esser felici rappresentata da Michele Apicella in Bianca, proseguendo con il paradigma della solitudine come condizione umana in Palombella Rossa, il suo cinema giunge al momento in cui l’autoreferenzialità diventa pretesto per parlare dell’umanità, nella sua accezione più sociale e politica (Caro Diario e Aprile), fino ad annullarsi completamente nella sua ultima fase creativa, la più matura.

Qui collochiamo quest’ultima fatica cinematografica, dal cui titolo capiamo immediatamente essere un’omaggio alla figura di Agata Apicella, madre del regista. L’impossibilità di superare il dolore di una perdita, tema già trattato ne La stanza del figlio, è il motivo per raccontare quel senso di inadeguatezza, fardello antropologico di una società in crisi nel Caimano, e, successivamente, unica strada possibile verso la libertà in Habemus Papam.

Questa volta Moretti si confronta con le sue colpe, in un atto di scusa delicato e pieno di sentimento, sublimando il patetismo e la retorica come valori di cui non vergognarsi, specchio universale in cui si riflette una generazione che non è più in grado di comprendere la realtà in cui vive. In un scena chiave, la protagonista, regista alle prese con un film impegnato, interpretata magistralmente da Margherita Buy, non sa rispondere alle domande della stampa che insiste sulla necessità di fare “cinema che rifletta il presente”. In un’altra dirà che “il regista è uno stronzo a cui è concesso di far tutto”. Margherita diventa la proiezione morettiana dell’io nella fase del conflitto con se stesso e con i propri problemi.

Il compito di smascherare lo stato delle cose è affidato invece al ruolo di John Turturro, che non si limita ad essere l’esilarante interprete di escursioni comico-surreali e metacinematografiche. È soprattutto la chiave di lettura extradiegetica, l’intruso venuto da lontano, l’Es che in una crisi di nervi griderà di “non voler più questa finzione e di tornare alla realtà”, perché solo dopo aver ritrovato se stessi, le cose iniziano a funzionare. A questo punto cogliamo il ruolo, apparentemente marginale, interpretato dal regista, fratello maggiore che, al contrario della sorella, sa consapevolmente cosa fare, rinunciando agli impegni, non senza un velo di malinconica rassegnazione.

Che questo sia il Moretti cosciente del proprio cambiamento, della propria incapacità di capire un presente ormai lontano e, dunque, pronto ad abdicare al ruolo di regista-interprete? Nel finale scarno e intenso come in un film dei Dardenne (forse il nuovo modello di stile del regista) un primo piano inquadra gli occhi della protagonista, nel commosso ricordo della madre. C’è un ultimo dialogo, poi l’inquadratura si sposta di nuovo sull’espressione di Margherita, cogliendone ora l’intimo cambiamento da una condizione di dolore alla gioia di una ritrovata consapevolezza. A noi piacerebbe immaginarlo come la metafora di un nuovo inizio anche per il suo cinema.

Grazie


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