Foto ©Futura Tittaferrante

Latini non è Narciso: per imparare a farci Eco

Le 'Metamorfosi' di Fortebraccio Teatro al Vascello

Perché Roberto Latini non fa Narciso?
Sembrerà una provocazione, e invece no, la domanda è sincera. Ma non tanto perché il tema in questione siano Le Metamorfosi di Ovidio, in cui, appunto, fra i tanti miti, si attraversa anche quello del celebre fanciullo che si innamorò del proprio riflesso; quanto piuttosto perché la storia si ripete per ben tre volte (prima in una performance individuale spettatore-attore, poi nell’interpretazione di Ilaria Drago, infine nella ripresa dello stesso Latini) e ogni volta Narciso viene come marginalizzato, senza mai pronunciare quell’emblematico passaggio del testo latino in cui il figlio di Cefiso si rende finalmente conto che l’immagine nell’acqua è la sua e afferma:

Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo!

Perché Latini rinuncia a un passaggio tanto cruciale e, al contempo, vicino alla poetica stessa di Fortebraccio Teatro? Ebbene, data la natura liquida del progetto – che a ogni tappa assume forme e aspetti diversi, secondo il luogo abitato, gli artisti coinvolti, gli episodi indagati; e che proseguirà quest’estate a InEquilibrio a Castiglioncello – rinunciamo a una sintesi della messa in scena modulare presentata al Teatro Vascello (una dozzina circa di episodi, dalle 19:00 alle 23:30) per proporre una lettura trasversale di questo curioso anti-narcisismo.

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Ciò cui si assiste nell’omonimo frammento, infatti, è un inaspettato capovolgimento: se Narciso è la presenza sublimata ad amore, che basta a sé stesso per tutto l’universo mondo, a raccontarci di lui invece sarà chi può manifestarsi solo in presenza altrui: Eco. Dunque, la protagonista in assenza qui è la voce. Ora. Per cosa viene criticato, quando viene criticato, Roberto Latini il più delle volte? Per mancare di sostanza, per eccedere nella forma, per ricorrere troppo spesso al microfono, alla modulazione, all’arabesco fonatorio di ascendenza avanguardistica (si pensi a Bene, Peragallo, De Berardinis), in una sola parola a essere troppo voce. Eppure, quando più che mai l’artista romano potrebbe abbandonarsi al narcisismo per antonomasia, egli al contrario ribalta la prospettiva ovidiana e ci costringe a osservare la vicenda di Narciso con gli occhi di colei che si strazia l’anima per l’indifferenza, per l’individualismo, per l’autoreferenzialità altrui. Latini prende le parti di Eco, anzi si incarna in essa: senza neanche la consolazione di un corpo, si fa voce pura.

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Facciamo ora un passo indietro. Chi sono i protagonisti delle Metamorfosi di Fortebraccio? Una masnada non troppo allegra di clown. Parrucche colorate, scarpe grandi, nasi rossi, biacca; buffoni truccati per divertire, facce congelate in una smorfia. Insomma, maschere pure senza voce propria. Eppure, qui, questi “interpreti del nulla” sono chiamati a vestire gli eroi della mitologia greca: un po’ come chiedere a un’ombra di rivelare l’anima del corpo che non può essere. Pertanto. Se sotto il trucco del clown c’è già subito l’uomo, di fatto è come se gli attori ci stessero mostrando il dramma che sono costretti a vivere ogni giorno. È vero il trucco, è vero l’uomo: ma noi che li guardiamo facciamo sempre più fatica a credere all’uno e ad accogliere l’altro. Allora cosa deve mai fare l’attore? Cosa mai deve essere il teatro?

Ecco che le Metamorfosi assumono un’altra apparenza, diventano cioè la testimonianza manifesta dell’eterna condanna alla metamorfosi, dell’impossibilità di essere forma. Chiediamoci soltanto: il teatro esiste più nelle persone che lo pensano o negli occhi di chi lo guarda? Più o meno consapevolmente, Latini sembrerebbe come portare in scena l’irrequietezza di un pensiero che non sa trovare “una” forma. Il che non solo stanerebbe la precarietà di un teatro italiano ambiguo e sfuggente che non riesce a creare eredità, ma ci riporta altresì alla questione iniziale del narcisismo negato.

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Se osserviamo bene, di tutti i clown, quello di Latini rimane il più anomalo. Lo si può notare da un particolare apparentemente marginale: la sua parrucca. Egli infatti più che un pagliaccio con quei suoi lunghi capelli corvini sembra uno yūrei, un fantasma giapponese, un’anima irrisolta. Torna così alla mente il Pinocchio infestante del suo Ubu roi, quello spettro che spargeva il dramma nella farsa. Lo spettro però stavolta si fa ancora più rarefatto: egli ormai è eco, una voce che può solo ripetere la fine altrui, un’ombra vestita da clown; ma non si tratta allora di quello stesso teatro che non muore mai e si trascina redivivo di sala in sala senza più diventare una forma che sia una fosse anche perfino la sua morte?

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Giungiamo così al tasto dolente. Gli attori sono ormai clown derisi proprio malgrado; l’artista-poeta-regista una voce privata di sostanze che non può esistere senza l’altrui presenza; e il pubblico? E se proprio il pubblico fosse Narciso? Un Narciso che non sa fare a meno di parlottare, di tossire, di scattare foto e video, di masturbarsi con il proprio smartphone, di staccarsi insomma dalla contemplazione compiaciuta del proprio riflesso per voltarsi ed accogliere chi sta tentando fosse anche soltanto con un’eco maldestra di rivolgersi a lui? No, non è questione qui di prendere le parti dell’artista come fosse una povera anima sventurata – le Metamorfosi stesse non funzionano sempre, a volte si congelano in una bella forma algida che corrobora la distanza –, piuttosto c’è da assumersi, ciascuno, le proprie responsabilità. In fondo, se Latini insiste tanto su Eco qualche domanda dovrà pur nascere.

Che possa come me innamorarsi ma non possedere mai la persona che ama.
Che possa innamorarsi come me, che sono solo suono.

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Nelle Metamorfosi puntualmente incontriamo qualcuno che paga amaramente il fio della propria devozione: Aracne condannata per il proprio talento, Ecuba regina svilita a schiava senza neanche l’onore della morte, il corvo escluso dal novero degli uccelli nobili semplicemente per aver fatto il suo dovere, Orfeo Piramo ed Eco colpevoli di troppa passione d’amore. E allora il punto è chiaro, Fortebraccio canta il lamento autoironico [i clown] della propria condizione: l’artista da solo non basta più, rischia di diventare pura rincorsa di un amore che manca, ripetizione involontaria di una fine. Come nell’Ubu Roi e nei Giganti le parole chiave saranno, ancora una volta, amore e paura.

Anche decidere di chiudere con l’episodio della Peste, dopotutto, è sintomatico (purtroppo però le parole non emergono come dovrebbero e quell’importante scenario si frantuma in sola voce). Sembra il quadro dell’indolenza dei nostri giorni:

Non c’è chi possa mitigare il male: il flagello scoppia spietato
anche fra i medici, che rimangono vittime dell’arte loro.
Chi è più a contatto col malato e con più tenacia l’assiste,
più in fretta cade in braccio alla morte. Svanita ogni speranza
di guarire, accertato che l’esito del morbo sarà la morte,
la gente si abbandona ai propri istinti, trascurando ciò che giova:
tanto, nulla può giovare.

Foto ©Futura Tittaferrante

Ecco, ora come ora ci ritroviamo proprio qui, ma con il punto di domanda: “nulla può giovare?” Il che vale a dire, vogliamo compiacerci nel vittimismo della fine o operare con coraggio una morte e una nuova rinascita? Questa è la posta in gioco e non riguarda soltanto Latini, il pubblico o il teatro, è lo scenario socioculturale che si affaccia quotidianamente al nostro orizzonte, basta aprire un qualunque giornale del mondo per rendersene conto. Che fare?

Proprio come nel monologo di Prospero all’interno dell’Ubu roi, Roberto Latini comunque, a modo suo, seppur timida e fragilissima una proposta la dischiude, e lo fa attraverso le parole preziose di Mariangela Gualtieri:

Non credere a chi tinge tutto di buio pesto
e di sangue. Lo fa perché è facile farlo.

Noi siamo solo confusi, credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
[…]
C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di più.
C’è splendore. Non avere paura.

Ciao faccia bella,
gioia più  grande.
Il tuo destino è l’amore.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro nient’altro.

Non lasciamo gli artisti da soli. Nutriamoli. Nutriamoci. Voltiamoci. Impariamo a farci eco.

Ascolto consigliato

Teatro Vascello, Roma – 18 e 22 maggio 2016

Crediti:

METAMORFOSI
(di forme mutate in corpi nuovi)

da Ovidio
traduzione Piero Bernardini Marzolla 
adattamento e regia Roberto Latini 
musiche e suoni Gianluca Misiti 
luci Max Mugnai 
costumi Marion D’Amburgo 
con
Ilaria Drago 
Alessandra Cristiani
 
Roberto Latini
 
Savino Paparella
 
Francesco Pennacchia
 
Sebastian Barbalan
 
Alessandro Porcu
 
Esklan Art’s Factory
 

direzione tecnica Max Mugnai 
organizzazione Nicole Arbelli 
riprese video Mario Pantoni 
foto Futura Tittaferrante
produzione
Fortebraccio Teatro 
Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte
 
con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi

Grazie


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