A passi dolci e lenti nel cerchio interminabile di Beckett
Maguy Marin ritorna con lo storico May B a RomaEuropa
Di qua o di là? Chissà!
A voler essere scanzonati si potrebbe riassumere così l’inestimabile lezione di Samuel Beckett, tutta giocata su come, perché e se pronunciare quel «chissà». Un genio, quello dell’autore irlandese, che è tanto più complesso quanto più è semplice, perché come suggeriva in Watt la vita, in fondo, è come un cerchio a cui manca un punto per essere compiuto. Il punto però non è assente, c’è: solo che sta un po’ più in là, quanto basta perché il cerchio non si chiuda.
E così è lo storico May B (1981) della coreografa francese Maguy Marin, un’opera di teatro-danza che è compendio, risposta e omaggio a Beckett. Opera mancata, sospesa, e per questo ancor più beckettiana, proprio perché splendidamente infinibile. Ad animarla, pertanto, non potranno che essere creature incompiute, pezzentelle, reiette e buffone, puzzone e grottesche, clownesche ed arcigne, quegli stessi incorreggibili felloni che popolano i play del drammaturgo.
Innanzitutto, però, è il buio: un buio totale, che ci dà il benvenuto tra le note di Schubert (v. ascolto consigliato). Siamo subito nell’ambiguità. La luce infatti tarda molto a venire e nell’aria intanto risuona il 24° Lied del Winterreise; è l’incontro del Wanderer romantico con der Leiermann (il suonatore di organetto), un altro essere insolito, forse la morte, forse il nostro doppio:
Nessuno lo vuole udire,
nessuno lo guarda più
[…]
Ma lui lascia passare
tutto, sì come vuol:
suona e il suo organetto
mai non si ferma inver.
Insomma, anche senza saperlo, siamo pronti a entrare nel mondo di Beckett.
O vecchio misterioso,
allor con te verrò?
Ci appaiono allora dieci uomini (cinque per sesso) senza tempo, i loro volti imbiancati e sospesi: sembrano novelli Adamo ed Eva appena sgusciati via dall’argilla e al contempo vecchie scorie polverose di un’umanità irrisolta (costumi Louise Marin). Scricchiolanti e lenti ci metteranno un po’ per attivarsi: piccoli passi i loro, meccanici, tanti mugugni; ma poi ecco che poco a poco scatteranno come molle dando vita a questo candido e sgraziato carillon che quanto più si carica tanto più gira ossessivamente su sé stesso.
Affioreranno così riferimenti espliciti alle opere teatrali più famose di Beckett (Finale di partita – l’unica citata testualmente –, Godot, Va’ e vieni, Tutti quelli che cadono, per menzionare le più evidenti), ma a tornare puntualmente sarà soprattutto l’impossibilità a giungere davvero da qualche parte.
Come il loop interminabile di Bryars che ne accompagna la trappola circolare (e sarà curioso notare che Jesus’ blood never failed me yet nasce dal canto di un senza tetto londinese incontrato per caso durante le riprese di un film, l’unico fra i clochard che non toccasse alcol – ascolta qui), queste creature sono sospinte dalla scia luminosa (disegno luci Alexandre Béneteaud) che dalla platea traccia lunghe linee attraenti ma impraticabili, sospendendo puntualmente così ogni evoluzione fra l’impossibile illuminazione di una fine e la durezza frustrante di quel muro scuro e anonimo che schiaccia sul fondo ogni slancio.
Come suggerisce il titolo stesso, dunque, May B è dubbio e speranza – “può darsi” e “che possa essere!” –, ma sempre lungo l’ironia della «B» di Beckett, perché è proprio nel segno della sua eterna sospensione di risposte che Maguy Marin ci offre un toccante quadro della vita e del nostro sano e insopprimibile diritto all’inconcludenza. All’incertezza. All’umanità.
[Doveroso segnalare i dieci interpreti: Ulises Alvarez, Kais Chouibi, Laura Frigato, Florence Girardon, Daphné Koutsafti, Johana Moaligou, Pierre Pontvianne, Ennio Sammarco, Marcelo Sepulveda Rossel, Véronique Teindas]
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 29 settembre 2015