Cos’è a prevalere nell’uomo, lo spirito di sopravvivenza o l’affermazione di sé nonostante tutto e tutti? I due «istinti» si assomigliano, eppure non sono la stessa cosa. Una questione che lo spettacolo della compagnia di danza Dewey Dell arricchisce di interessanti sfumature futuristiche, tanto da spingerci a ritradurre il dubbio in questo modo: il mondo postapocalittico è quello che fa seguito alla catastrofe o quello in cui impianteremo il seme di una nuova apocalisse?
Gli artisti cesenati non sono interessati a offrire risposte certe e univoche, ricorrono piuttosto a una moderna iconografia orientale assai eloquente (determinante la collaborazione con i nipponici Kuro Tanino-assistente alla regia – e Yuichi Yokoyama-costumi) che mostra ma non mira a significare.
Partiamo allora dal nome. Marzo come Marte, come guerra, ma anche come arte marziale, come tecnica disciplinata con tanto rigore da diventare estetica; Marzo come scongelamento dell’indolenza invernale, come esplorazione di un mondo nuovo, come transizione sospesa dal vecchio al nuovo. Marzo come performance in cui ci appare un samurai dal volto posticcio che si smarrisce in un interstizio indefinito di tempo, una dimensione altra dai tratti futuribili e gli istinti primitivi.
Un lungo telo bianco verticale inscrive la scena in un spazio lunare, asettico, che se da un lato ispira una certa desolazione esistenziale (acuita a sua volta dalla corposità delle ombre emergenti), dall’altra riesce a concentrare tutta l’attenzione degli spettatori sui movimenti dei personaggi. Questi – inutile ridurli a «ruoli» – in perfetto stile orientale non trovano la loro ragione d’essere attraverso lo svolgersi di una storia ma dispiegano il proprio io nell’essenzialità di una forma o un singolo gesto.
Sebbene manchi una trama, le situazioni sono archetipiche e l’eloquenza dei segni disseminati è tale da suscitare innumerevoli stimoli: la maschera fumettistica del samurai, troppo ingombrante per sostenere la sacralità della figura; il vuoto individuale delle creature sferiche con la bocca su un lato della testa e gli occhi sull’opposto; l’aitante uomo spaziale con tanti “2” impressi sul corpo che ci rimandano al futuro, al venir dopo, o all’essere ridicolmente “post” nonché copia-clone-alterego, e poi il suo casco dall’estensione oblunga che richiama potenza, virilità, ma in prospettiva anche una testa di rapace saprofago. Ed è proprio un gracchiare di corvi che di tanto in tanto emerge squillante e sinistro dall’assordante cascata di suoni sintetici che investe l’odissea immobile dei personaggi, una voce finalmente naturale e vicina che tuttavia risuona incredibilmente funesta.
Marzo dunque getta una grande ombra non semplicemente sull’uomo ma su tempi e mondi che condividono una tensione allo scontro, alla distruzione, all’affermazione che da ultimo reca soltanto desolante solitudine. Uno spettacolo carico di segni e di grande impatto ma che sembra esaurire troppo presto la sua carica espressiva, lasciando infine gli spettatori colpiti ma distanti.
La Pelanda, Roma – 4 settembre 2014
In apertura: Foto di scena ©Bernhard Müller